Tra il 2010 e il 2011 il Belgio ha attraversato la crisi di governo di maggior successo che si sia mai registrata: prodotto interno lordo a +2,1%, debito pubblico in discesa, con un presidente del consiglio dimissionario che ha approvato una finanziaria molto discussa mentre guidava il semestre di presidenza Ue.
Verrebbe da dar ragione a chi auspica una politica invisibile, intenta a regolare l’amministrazione dello stato secondo criteri organizzativi di efficienza creando la gradevole illusione che tutto si svolge nel modo migliore in assenza della rappresentanza e che il più desiderabile premier sia chi permette ai cittadini di occuparsi di sé dei suoi cari, dei suoi beni e dei suoi interessi che con la politica hanno poco a che fare e occasionalmente.
Se così fosse avremmo delle speranze: forse i segnali di ripresa, mentre si sgretola l’edificio fragile del sistema finanziario, mentre sembrano materializzarsi altri eserciti di esodati, mentre i bus di Napoli sostano delle rimesse e chiudono reparti e ospedali, forse la luce in fondo al tunnel da altro non è data che dall’assenza benefica di governo e partiti impegnati nelle scaramucce e nelle visite pastorali della campagna elettorale. La verità è che la “politica”, intesa come l’azione di questo ceto dirigente non sa esercitare nemmeno l’arida amministrazione dell’esistente, la gestione ragionieristica dello status quo.
La commistione delle èlite, partitiche, finanziarie, imprenditoriali, accademiche, con reciproche sottrazioni di sovranità e mutue annessioni aberranti ha creato un equilibrio, instabile certo, ma che non sarà certo scosso dal rito liturgico di elezioni nelle quali quasi tutti corrono per guadagnare lo stesso traguardo. Che non è il nostro, se l’esito è l’annientamento del lavoro, dei suoi valori, dei diritti mai abbastanza acquisiti, la cancellazione dello stato sociale, la svendita dei beni culturali quando non la cessione a comprovati farabutti, lo scardinamento del sistema dell’istruzione pubblica e della ricerca, le grandi opere che feriscono il territorio, mentre le città sono sempre più ferocemente invivibili, se si incrementano le disuguaglianze e le incertezze in modo che le garanzie divengano elargizioni somministrate in virtù dell’acquiescenza.
In tutta la comunicazione dei soggetti saliti o discesi in campo circola una formula bipartisan, ecumenica, unitaria: adesso ci occuperemo di quello che conta. Lo dicono mentre spazzano sotto il tappeto le loro fondazioni, comprano Balotelli, vanno in gita a Berlino a prendere ordini. E il sospetto è che le priorità siano far digerire ai gruppi sociali più deboli cure da cavallo per un ventennio a base di tassazioni, erosione di diritti, pareggi di bilancio e altri strumenti più o meno tossici. Priorità condivise se come ha detto qualcuno è questa la conquista dell’idolatria del bipolarismo: penalizzare le ali estreme nella coincidenza di due poli, convinti della bontà profittevole di rinunciare a chiamarsi destra e sinistra per adottare formule di colazione che confermano concordanza di pensiero e di intenti, per non dire la correità e la connivenza.
L’assimilazione dei due poli, questa coesione evidente se non denunciata produce quell’effetto che i candidati dimostrano chiaramente di preferire al voto “inutile” di chi non accetta l’amara marmellata. Spesso in questi giorni gli irriducibile della rappresentanza e della cittadinanza sono oggetto di inviti pressanti da parte dei più variegati fan della coalizione di centro sinistra a “esercitare” l’astensione, guardata con simpatia se significa la moderna appartenenza del nostro sistema al club delle grandi democrazie dove vota meno della metà degli elettori. E forse auspicano che il non voto finisca per coincidere con la statistica globale: 99% vittima della crisi e l’1% che continua ad arricchirsi. E che si candida a perpetuare anche attraverso la proprietà della “politica” l’iniquo divario.
Qualcuno ha scritto anni fa: il comunismo storico è fallito. Ma la sfida che esso aveva lanciato è rimasta. Beh non era Bakunin, era Bobbio. Che oggi credo proprio sarebbe incollerito per l’uso aberrante della parola ideologia come babau da opporre non appena si parla di disuguaglianze, di conflitto tra le classi, di sfruttamento e di profitto e della incompatibilità degli interessi degli uni, che il profitto lo produco, e gli altri che il profitto lo incassano. Come se il malinteso europeismo non fosse un’ideologia, come se non lo fosse il rigore, come se nono fosse viva una destra che ha rafforzato i suoi capisaldi: autoritarismo, razzismo in tutte le sue forme, demolizione del sistema di rappresentanza, appropriazione e abuso del potere da parte di una oligarchia, corruzione e clientelismo, privatizzazione e personalizzazione del sistema di governo, in modo da sancire l’eternità del capitalismo, l’ineluttabilità dello sfruttamento, l’inesorabilità della sopraffazione.
Per quanto mi riguarda non voglio “collaborare”. Non voglio partecipare alla festosa consorteria origine di ogni forma di cooperazione ingiusta, che reca vantaggi solo ai cooperanti qualunque sia lo svantaggio nostro e di chi verrà dopo di noi. Non c’è fatalità in tutto questo, se non ci si arrende.