L’indice accusatorio, se di questo si può parlare, dovrebbe piuttosto esser puntato contro un prodotto che pur di non rischiare il lusso dell’innovazione, risulta piatto e artificioso, alleggerito sporadicamente da timidi sprazzi di humor efficace, ma in linea di massima scontato. Tracciando una mappa concettuale della trama vi basta infatti invertire specularmente le dinamiche del precedente capitolo: Mattia (Alessandro Siani), a causa di un malinteso, viene spedito ad uno degli sportelli della posta a Milano, fin dentro al temibile e nebbioso nord che già Totò e Peppino avevano “esplorato” facendo bella mostra di pellicce, colbacchi e palandrane. Ad ospitarlo è Alberto (Claudio Bisio), il dirigente brianzolo che nel film precedente aveva imparato a far tacere ogni pregiudizio nei confronti dei “rozzi” meridionali e che ora, insieme al figliolo e alla moglie Silvia (Angela Finocchiaro), occupa un posto di rilievo all’interno delle Poste Italiane del capoluogo lombardo. Ad onta dell’inesorabile rottura con le rispettive consorti, i due annegano in una crisi di valori e identità che ha soluzione nello scambio di esistenze reciproco: il pigro ed impulsivo meridionale si imbarca in una iperproduttiva scalata al successo professionale, il preciso e solerte impiegato nordico riscopre la spontaneità di una umanità che le logiche aziendali avevano annebbiato. Il resto non ve lo anticipo, anche perché tirando qualche retta le evoluzioni successive si evincono già da qui.
Si strizza l’occhio alla satira provocatoria nella magistrale interpretazione di Paolo Rossi, nei panni di un dirigente delle poste a mo’ di Marchionne, e al citazionismo velato, come ad esempio nella scena in cui i due protagonisti attraversando le strisce pedonali di una strada milanese ripropongono una loro versione dell’ormai celebre copertina di Abbey Road dei Beatles. Il risultato è un pot-pourri di gag in alcuni casi anche notevoli (come la conversazione tra il meridionale Scapece e la suocera lombarda che, nonostante i rispettivi indecifrabili dialetti, sembrano comunque intendersi perfettamente) in altri parecchio grottesche (penso al razzismo leghista) quando non addirittura forzate allo stremo (il pesce rosso nel sushi vorrebbe essere un omaggio ai migliori cine-panettoni?). La speranza è che l’opera rimanga un infelice intermezzo nel panorama della commedia italiana che tanto ci ha dato lustro in passato nel mondo, quella che magari facendo leva sulle dicotomie geografiche sapeva comunque veicolare messaggi, oltre che risate.