C’è qualcosa di sbagliato fin dal principio in questa nuova pubblicità della Scuola Pubblica uscita sul portale web del Ministero pochi giorni fa: schermi ultrapiatti, tablet, lavagne elettroniche, luce diffusa su pareti da poco reimbiancate, che sembrano preannunicare esterni efficienti e ultramoderni. E poi gli studenti, tutti sorridenti, e di tutte le razze, e tutti dai grandi occhi blu aperti sul mondo, con quell’impressione che danno d’essere ben inseriti, ben coscienti del loro ruolo e delle loro possibilità future. Se me l’avessero fatta vedere così, in modalità silenziosa, senza la voce leggera e avvolgente di Vecchioni a dirmi di quanto ai nostri giorni siano anche gli insegnanti a imparare dagli studenti, avrei pensato d’essere in Canada, o in America, o in Australia, o da qualche parte nel nord dell’Europa.
Poi è saltato fuori – l’hanno detto i giornali e l’ha confermato poco dopo il Ministero – che la pubblicità non è stata girata in una delle nostre scuole, dove mancano i gessi e i tablet non sono mai arrivati, dove l’intonaco casca a pezzi e il cortile è divorato dagli arbusti, ma alla Deutsche Schule Mailand di Milano, una scuola privata tedesca dove l’unica cosa italiana è, almeno per ora, il suolo pubblico su chi è stata costruita.
Anni fa, quando invece d’insegnarci a scuola ci andavo da studente, una delle professoresse amava metterci in guardia dalla pubblicità del Mulino Bianco “ché quella fattoria con la ruota che gira e gli uccellini che svolazzano intorno alla famigliola felice, nella realtà, non esiste”.
L’Italia, ecco, mi pare sia stata negli ultimi anni invasa da pubblicità ingannevoli, patinate, devianti, tutte lustrini e bella gente, gente che sa, gente che ha, gente che vuole e che non ha bisogno di faticare troppo per continuare ad avere. A chi si ostina a sostenere che è questo che deve fare una pubblicità, cioè presentare un mondo che in realtà non c’è, sarebbe fin troppo semplice rispondere confrontando la maniera in cui medesime case automobilistiche studiano e realizzano i propri spot ad hoc per il pubblico a cui si rivolgeranno: in uno dei casi, prendiamo l’America ma potremmo benissimo essere in Olanda, si introducono le qualità dell’autovettura, mostrandocele e mostrandocela; nell’altra, diciamo che siamo in Italia, si mostra la macchina in movimento, meglio se associata a una bella donna e a un uomo di successo, con una voce suadente a ricordarci che noi, noi che dobbiamo pagare il mutuo e che stiamo guardando la bella donna e l’uomo di successo nel televisore appena acquistato, noi, valiamo.
La pubblicità della scuola pubblica commissionata dal Ministero oggi, sul finire di questo tragico 2012, mi pare si muova nella medesima direzione, e crei un effetto stridente, quasi offensivo, se messa in relazione al Velo di Maia che con tanta fatica abbiamo appena cominciato a strappare.
Fino a una decina di anni addietro molti dei film stranieri che ritraevano l’Italia lo facevano nell’atmosfera leggera e suggestiva del racconto fiabesco: sotto il cielo terso della Toscana pareva possibile ristabilire quell’originaria purezza di sentimenti che altrove era andata perduta. A chi tra miei studenti mi domandava perché avessi lasciato l’Italia, (e nello specifico la Toscana) rispondevo che la realtà era diversa dalla fiction. Oggi le carte in tavola sono cambiate e l’idea che l’Italia dà di se stessa all’estero è quella di un paese corrotto e meschino, fatto di privilegi e di sogni (anche i più semplici, come trovare un lavoro e metter su famiglia) impossibili.
Il cinema (soprattutto quello nostrano) sembra essersene da tempo accorto. La stampa pure. La gente forse. I burattinai no.
Tornato in Italia due anni fa per questioni personali, sono andato in giro per le scuole armato di curriculum per valutare le mie possibilità d’insegnamento. Era fine estate, e la maggior parte degli istituti non avevano ancora aperto. La mia compagna, che non è italiana, guardando gli edifici fatiscenti e i cancelli arrugginiti continuava a ripetermi “Matteo, questa scuola è abbandonata”. Solo dopo averne visitato una seconda, e poi una terza, e poi una quarta, si è finalmente convita che quella che aveva di fronte era la realtà delle scuole pubbliche nel mio paese.
In contrasto, due giorni fa, mi sono recato in una scuola elementare di Auckland, per sbrigare alcune faccende.
Entrato nel giardino che porta all’edificio m’imbatto in un gruppo di bambini che, muniti di tablet, stavano girando nel prato in cerca di qualche cosa. All’interno dell’edificio incontro altri bambini, ognuno con un tablet in mano. Poco dopo intercetto un terzo gruppo, che ha appena trovato un codice a barre quadrato e vi sta puntando sopra i tablet per ricavarne informazioni. Chiedo alla maestra e mi viene spiegato che stanno facendo una ricerca, e che per farla usano la tradizionale ‘caccia al tesoro’ unita alla tecnologia touch screen. Ci sono, insomma, vari codice a barre quadrati che stamani sono stati disseminati in varie zone della scuola: ognuno conduce al successivo e al tempo stesso dà le informazioni necessarie alla conclusione della ricerca, ricerca che, guarda caso, è proprio incentrata sul rapporto tra tecnologia e tradizione.
Chi si aspettasse che nella pubblicità che il Ministero neozelandese realizza per le sue scuole pubbliche compaiano navi spaziali e oleogrammi resterebbe deluso. Si mostra quello che c’è. Niente viaggi su Marte, non ancora.
Non c’è bisogno d’immagini illusorie, per rendere la scuola quel posto migliore di cui Vecchioni parla nella pubblicità. Né di giovani sorridenti dalla pelle liscia e curata o di stanze illuminatissime con schermi di computer posizionati su ogni banco.
Quello che occorre, e di cui veramente abbiamo bisogno se vogliamo tornare ad essere il paese che amiamo tanto reclamizzare, è un atto d’onestà.
Sarebbe forse la maniera giusta di cominciare se, nel prossimo spot del Ministero, si entrasse finalmente – e definitivamente – in una delle nostre scuole.
Filed under: Articoli Tagged: Matteo Telara, pubblicità, scuola pubblica