Tra i cosiddetti “pregi” della giovinezza (o meglio: della tarda infanzia, come in questo caso) annoveriamo il “candore”. Un “pregio” che ovviamente, a seconda di quel che “candidamente” viene affermato, può rivelarsi un grave “difetto”.
Nella giornata di ieri – come prevedibile – i media (in particolare quelli di lingua tedesca) hanno dato ampio risalto alle dichiarazioni di Alessandro Bertoldi, un giovane esponente del PDL locale, il quale aveva in sostanza affermato che le violenze subite in carcere dagli attentatori sudtirolesi degli anni sessanta erano “meritate”. L’occasione che ha fornito questa insostenibile presa di posizione era stata data da una precedente precisazione del presidente del Consiglio provinciale, Mauro Minniti, il quale invece aveva coraggiosamente puntualizzato che quelle violenze (al di qua di ogni loro possibile interpretazione) ci furono e quindi dovevano essere condannate. In un editoriale apparso ieri sul Corriere dell’Alto Adige mi ero preoccupato di dare risalto alla posizione di Minniti, anche perché ritengo che dare spazio a certi messaggi sia più produttivo rispetto alla tecnica contraria (fin troppo abusata), cioè quella che privilegia sempre informazioni foriere di scontro. È evidente che il giovane Bertoldi sia d’avviso contrario (ma non solo lui, purtroppo). Infatti è riuscito a rubare la scena a Minniti e a conquistarsi una piccola porzione di celebrità (ancorché non esattamente “buona” celebrità).
Comunque. Sulla Tageszeitung di oggi, Arthur Oberhofer intervista Bertoldi. Si tratta di un’intervista illuminante (più illuminante degli scritti dello stesso Bertoldi, che infatti risultano sempre un po’ confusi, contraddittori e approssimativi). L’intervista, ne consiglio la lettura, si apre con questa affermazione: “Ich habe die Diskussionen rund um die Vorfälle in den Sechzigerjahren verfolgt und bin draufgekommen, dass nicht seriös und nicht historisch fundiert duskutiert wurde. Es wurde von allen Seiten Benzin ins Feuer gegossen, daher habe ich gesagt: Ich kann auch Benzin ins Feuer gießen”.
Un commento di questo passo può aiutarci, a mio avviso, a capire bene non solo il metodo Bertoldi, ma quali sono le tipiche storture del discorso pubblico sudtirolese (e non solo quello).
1. Bertoldi afferma di aver seguito le “discussioni” sulla “notte dei fuochi”. Non cita quali, ma dice che si è trattato di discussioni poco serie e prive di fondamento storico. In verità sono state prodotte parecchie buone discussioni sul tema, ma ignorare ciò che di buono viene fatto e detto (come dicevo nella premessa) e concentrarsi solo su ciò che risulta insoddisfacente corrisponde a una precisa strategia comunicativa e, ahimé, politica.
2. Da ogni parte veniva gettata benzina sul fuoco, prosegue poi Bertoldi. Anche questo non è vero. Accanto ai pochi che quasi di professione gettano benzina sul fuoco (possiamo citare i famosi manifesti della Süd-Tiroler Freiheit), non sono state poche le voci di chi ha cercato di togliere per quanto possibile combustibile dalla scena (ricordo un editoriale di Toni Ebner, sul Dolomiten, che ribadiva la ferma condanna di qualsiasi uso strumentale e celebrativo dell’epoca delle bombe).
3. Ma visto che “tutti” – conclude Bertoldi – gettavano benzina sul fuoco, allora ho pensato di gettarla anch’io. La conclusione, deprimente quanto si vuole, completa lo stolto disegno e introduce l’arida morale. Per farsi notare, per conquistare le pagine dei giornali, bisogna attivare gli istinti più bassi, bisogna speculare sulle emozioni, bisogna alzare i toni. Lo fanno ”tutti” (gli esempi di Bertoldi sono noti). Perché non può farlo un ragazzetto ambizioso e ignorante (dove l’ignoranza spesso è direttamente proporzionale all’ambizione)?
Resta una domanda da fare: è possibile fare qualcosa per contrastare l’efficacia e la pervasività di questo metodo?