Beppe e la demoscopia. Il termine demagogia svela implici...
Creato il 12 novembre 2013 da Lostilelibero
Alcuni
si fermano alla polvere, molti alla superficie. Per costoro è tutto un turbinio
di legalità e di pulizia; un’enfasi schizofrenica, impudica, che si riparte
egualmente tra coloro che vedono Beppe come il fumo negli occhi e chi invece
crede che sia il messia tanto atteso ed ora finalmente giunto a presenziare il
loro baccanale.
Grillo
ha senz’altro un merito palese, che gli va oggettivamente riconosciuto.
Egli
costringe, suo malgrado, la politica a fare finalmente i conti con sé stessa. Messa opportunamente di fronte ad uno specchio la rivela per quello che
realmente è: un tentativo di metterlo nel culo al popolo col proprio consenso
(peraltro al popolo pare che questo contorsionismo piaccia parecchio).
Lo
si evince indirettamente anche da quell'ingiurioso ritornello, ormai logoratosi
negli interstizi politici, che stigmatizzava il competitor, a destra e a manca, con l’attributo di “demagogo”. Il termine è stato persino superato, esplicitando ancor di più il carattere “anti-popolare”
del politico democratico.
La
“demagogia” è stata così mandata in pensione (forse perché il termine stesso,
così naif, risulta eccessivamente astruso per il vulgus), dalla comparsa di un analogo espediente retorico che si
carica però degli stessi valori paradigmatici. E’
il successo del vocabolo “populismo”, assurto ormai ad oltraggio maximum, insulto che rivela
condensandolo, il sottile disprezzo che la classe politica prova nei confronti
di coloro a cui chiede il consenso.
Il
“retorico” Monti, osservando col “tatto” che contraddistingue lo sguardo del
bocconiano disincantato, ci riporta per un momento all’essenza della
problematica: “c’è populismo perché non
c’è popolo”. Monti non ha torto, ma nemmeno ragione.
Se
la schiettezza, almeno quella logica, lo toccasse, dovrebbe farci sapere anche
quando la democrazia abbia goduto di un popolo all’altezza della propria
coscienza e di una maturità, o consapevolezza se si preferisce, nell’esercizio
“libero” del proprio voto. Questo popolo
abbisogna piuttosto di avvinghiarsi alla società democratica e ai propri
stregoni a tal punto che addirittura, come insegna Nietzsche: “ha bisogno del padrone, di chi lo comandi,
come del pane quotidiano” (anche quando è arrabbiato ed
insoddisfatto non fa nulla contro il proprio “carnefice”, dato che lo ha eletto
a “salvatore”. Il popolo finge anche nel malcontento).
Questo
popolo, ormai destituito da ogni sorta di idealizzazione compiacente,
svirilizzato, privo di qualsiasi impegno libertario e pathos, conosce solo il disimpegno e s’incazza ormai, celebrando in
questo la propria stanchezza verso sé stesso, solo al bar. E’ degradato a
parodia, quella parossistica del “piove, Governo ladro”, castratosi
scientemente per alleviare le “fatiche” a cui ogni responsabilità di autodeterminazione
lo avrebbero condotto.
“Populismo” significa spregiativamente che si sta
tentando d’ingannare il “popolo”. In realtà il termine dice convessamente che
il popolo si lascia ingannare e che, nella gestione della “cosa pubblica”, non
è “corretto” cadere nella tentazione d’imbrogliarlo. Non dicendo dice insomma
che la classe politica crede, come un arrogante pater familias, di sapere cosa sia giusto per esso.
Lasciare
intendere, a ragione o a torto, che il popolo è incapace di gestirsi in quanto
popolo, significa dire, implicitamente, che la democrazia in tutte le sue
possibili declinazioni non funziona. Non c’è male per un onorevole della
Repubblica il quale, senza cognizione, afferma contemporaneamente due verità in
un colpo solo, ovvero che egli non rappresenta nient’altri che sé stesso e che
il popolo è “quella roba lì”.
Nemmeno
un membro della chambre introuvable, un
Burke o un verace membro dell’aristocrazia di spada, avrebbe mai osato tanto. Ciò
che nell’ancien régime era evidente,
ma pudicamente taciuto per non urtare la “sensibilità” del “terzo stato”,
diventa possibile in democrazia. Un bel passo avanti!