Sedotti da ammirevoli, succulente retrospettive, ci siamo aggirati attorno al concorso della 32° edizione di Bergamo Film Meeting come predatori snervati dalla lunga attesa, dubbiosi peraltro riguardo al momento più opportuno in cui sferrare l’attacco. Vi è stato inoltre un piccolo smacco, dovuto ai tempi della nostra permanenza in città: non ci è stato infatti possibile recuperare Silmäterä (The Princess of Egypt), film del finlandese Jan Forsström cui sarebbe poi andato il Primo Premio del festival. In compenso gli altri due lungometraggi premiati li abbiamo regolarmente intercettati. L’impressione che abbiamo tratto da queste e da altre visioni legate al concorso è che non ci fossero, quest’anno, opere del tutto riuscite o di fortissimo impatto, bensì qualche film discreto alternato a prodotti di gran lunga più trascurabili.
Se del secondo classificato, Leave to Remain (Permesso di soggiorno) del britannico Bruce Goodison, ci ha impressionato più che altro l’approccio diretto a un tema attuale come la brutalità dei rimpatri nella “fortezza Europa”, lasciandoci però seri dubbi sia sulla schematicità del racconto che sull’efficacia complessiva della regia, un po’ più accattivante si è rivelata la saga sportivo/malavitosa dell’olandese Jim Taihuttu. Il suo Wolf (Lupo), girato in un ruvido bianco e nero che, dato anche il coté multietnico, può far pensare a L’odio di Kassovitz, si è pertanto aggiudicato il terzo premio del festival orobico. E anche se nella durata (circa 2 ore) tutto sommato eccessiva emergono non pochi limiti di tenuta e di originalità, il piglio mascolino della regia, la fisicità marcata dei protagonisti e un montaggio dal ritmo sostenuto riescono comunque a tenere viva l’attenzione, evidenziando il corpo saettante del protagonista quale icona torva e crepuscolare.
Al centro del plot vi è infatti la parabola violenta e disperata di Majid (Marwan Kenzari), figlio quasi rinnegato di una famiglia alquanto tradizionalista di immigrati, che si era sforzata di trovarsi una posizione dignitosa in un sobborgo grigio e degradato dei Paesi Basi: da astro nascente della seguitissima kickboxing locale, lo vediamo perdersi man mano in torbide vicende relative ad affari coi malavitosi del quartiere, debiti, pestaggi, amori sbagliati, fino a una sanguinosa rapina il cui esito è destinato a marcarlo per sempre. La prima considerazione è che vi è forse troppa carne al fuoco, in una sceneggiatura che ha il merito di introdurre scenari interessanti, senza però approfondirli a dovere. Anche la storia di riscatto sportivo che annaspa però nella melma di una qualsiasi periferia del Vecchio Continente non sarebbe di per sé particolarmente originale. Ma la verve degli interpreti e una solida costruzione registica conferiscono comunque sufficiente vigore a Wolf, film la cui esplorazione di rabbie giovanili e proletarie appare fin troppo delimitata, aprendo però qualche squarcio interessante su un mondo chiaroscurale.
Stefano Coccia