(Silenzio)
Dall'aereo non si vedono le luci di Berlino e tutte le mie luci sono laggiù.
Nella dolcezza del suo freddo che ti assalta dietro Alexanderplatz, quando ti rifugi nel tram per salire su per Prenzlauerallee.
Ho tentato di prenderle con me, queste lucciole appannate di felicità, quest'unica strada che si dirama in me e che chiamo Berlino, tracciata in lungo e in largo dalla mia velocità di possederla, questa cecità in cui sono a casa, senza nessuna premura di tornare (o di chiedermi dove tornare).
Ho portato con me i miei ragazzi, ho tirato via il mio mondo direttamente da Berlino, giusto dietro l'angolo di una prospettiva sghemba. La loro indolenza, la loro resistenza a tutto questo silenzio, che vorrà pur dire qualcosa, ma come in una lingua straniera, un po' aspra.
Ho portato con me il ricordo di ciò che ho vissuto due anni fa, di questa città gentilissima, incapace d'essere oltraggiosa, nella forza tellurica dei suoi sorrisi e del suo coraggio di svelarsi diversa e di non riconoscersi più.
Ho portato con me il fresco dischiudersi degli Hackesche Höfe, nel loro benestante e un po' altezzoso riserbo. I nomi dei ragazzi che ora suonano diversi, le forme sconnesse e dispersive dello Judisches Museum, nei suoi continui punti di fuga, i colori vividi e mediterranei dell'Orangerie a Potsdam, con l'anatra vera, e la fontana con le sagome per turisti, i terrazzamenti di viti, i sentieri di giardini nel bosco.
Grazie, ragazzi, non so davvero come abbiate fatto, ma mi avete riregalato Berlino.