Berlinale 2015. Il film vietnamita CHA VÀ CON VÀ (recensione)

Creato il 13 febbraio 2015 da Luigilocatelli

Cha Và Con Và (Big Father, Small Father and Other Stories) di Phan Dang Di. Con Do Thi Hai Yen, Nguyen Ha Phong, Le Cong Hoang. Concorso.Nel Vietnam dei primi anni Duemila un gruppo di amici e qualche ragazza. Tra club di notte, piccole e grandi illegalità, bande criminali, amori difficili, come quello di Vu per l’amico Than. Un film benissimo girato, ma con il brutto vizio, ormai dilagante nel cinema nuovo, di non dire, non spiegare, puntando sull’ellissi e cancellando ogni narrazione. Voto tra il 5 e il 6Saigon, primi anni Duemila. Vu, studente appena arrivato da un villaggio, con la sua macchina fotografica appena regalatagli dal padre, riprende persone e cose (“I am a camera!”). L’amico Thang, barman in un club e giocatore d’azzardo, arotonfa facendo lo spacciatore, sembrerebbe di eroina. Ecco poi un musicista da strada. Ecco un amico che si è appena fatto vasectomizzare per non avere figli. Il gruppo degli amici-protaogonsti è questo, cui si aggiungono presenze fluttuanti. Intanto l’occhio della camera di Vu continua a riprendere la vita da strada, una fabbrica, la vita di notte. Nel club in cui lavora, Than fa conoscere a Vu la bellissima Van, la star del locale con il suo spettacolo di danza erotica e boys desnudi. Lei e Than stanno insieme, ma c’è posto nel loro letto, sembrano di capire, anche per Van (un altro dei molti triangoli visti a questa Berlinale). Quando un amico verrà picchiato per strada dagli sgherri di un usuraio, decidon di tutti di cambiare aria e di andare nel villaggio di Vu, da suo padre, per un po’. Ed è qui che l’omosessualità di Vu si manifesta senza più equivoci, e l’oggetto del desiderio è l’amico Than. Torneranno tutti a Saigon, dove le loro traiettorie faticheranno a incrociarsi, e niente sarà più come prima. Film benissimo girato, ritratto di un Vietnam sideralmente lontano da quello di Ho Chi Minh e pervaso da una frenesia di consumi e piaceri. Solo che, come in tanto cinema di ultima o penultima generazione, si decostrisce la narrazione e ogni linearità, si procede per ellissi e accumulo di dettagli, nella mala convinzione che meno si dice e spiega e più si è fighi. A meno che in Cha Và Con Và la reticenza – soprattutto sull’omosessualità di Vu – sia obbligata per non incorrere in guai con censura e cose del genere (sarà il caso di ricordare che il Vietnam non è un modello di democrazia). In ogni caso il risultato è la quasi impossibilità per lo spettatore di seguire il racconto. Già distinguere le facce orientali non è per noi cosa semplice (e adesso datemi pure del razzista, ma così è), se poi ce le mostrate a frammenti o per pochissimi secondi ci si perde. Per dire: c’è un momento in cui uno dei ragazzi finisce in acqua e sembra essere annegato. L’amico lo trascina sulla riva e gli pratica la respirazione bocca a bocca. Bene, pensate che il signor Phan Dang Di si degni di farci vedere se l’annegato è davvero annegato o se si rianima? Macché, la scena viene subito tagliata. E del tizio non si dice più niente. Dobbiamo aspettare almeno dieci minuti per vedere l’annegato evidentement non annegato sbrigare le sue faccende per le strade di saigon. Ecco, il film è (de)costruito a questa maniera, un coitus interruptus infinito e reiterato che trancia l’azione prima che si esplichi e si concluda, in un’ossessione del differimento (del resto la sterilità, e la castrazione, sembano esseri i fantasma che percorrono tutto il film, esplicitatoi dalla scena della vasectomia). Sicché alla fine si esce dalla sala estenuati per la tensione continua a mettere insieme le schegge del puzzle.


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