Berlinale 2016. I miei 5 film di giovedì 11 febbraio

Creato il 12 febbraio 2016 da Luigilocatelli

Havarie

Havarie, un film di Philip Scheffner. Germania. Sezione Forum.
Impatto devastante con la Berlinale 66. Il primo film che ho visto (sezione Forum, la più sperimentale, la più avanzata linguisticamente) è di quelli penitenziali, ostici, estremi, radicali, punitivi, quaresimali, impossibili, che mettono a dura prova la tua resistenza, anche se pensi di essere temprato e di averne viste di ogni e che niente possa più sorprenderti o farti arrabbiare. E invece. Invece qui siamo in un territorio solo parzialmente esplorato dalla macchina cinema, con suggestioni forti e innovazioni e nuove visioni, ma pure solipsismi e vizi autorialistici al limite dell’umana sopportazione. Si parla di migranti, di barconi in mezzo al Mediterraneo (ne parlerà anche Gianfranco Rosi nel suo Fuocoammare), uno dei temi che si annunciano centrali di questo festival. Tant’è che perfino alla conferenza stampa dei Coen ci sono state un paio di domande incongrue sui rifugiati, cui ha pazientemente risposto Clooney. Dunque, per un’ora e mezza e più vediamo solo una schermata digitale di un pezzo di mare con una macchia sfuocata in mezzo, che capiamo essere un barcone o un gommone con sopra una decina di migranti. Barcone fermo, in avaria, in attesa di soccorso. Siamo tra costa nordafricana e Spagna, si supone che il naviglio venga dall’Algeria o dalla Tunisia. Ecco, il regista ci mostra solo quell’azzurro grigio tremolante, e quella macchia scura in mezzo alle onde, e intanto fuori campo si accavallano varie voci in varie lingue. Qualche volta ne capiamo il senso, qualche volta no. Sono passeggeri e uomini di equipaggio delle due navi che hanno avvistato il barcone, un cargo e una nave passeggeri. Ascoltiamo voci del centro di soccorso spagnolo che si coordinano per l’intervento. Sentiamo vici di gente che è già emigrata in Francia, che forse sta su una delle due navi. O provengono dalla barca in avaria? O da qualche altra parte? C’è il cazzeggio dei marinai russi che si raccontano le loro storie di famiglia, e sembrano non preoccuparsi tropo di quelle persone in mare. Sentiamo i canti della crew filippina. C’è un clima non di indifferenza, ma di distacco sì, come se quegli avvistamenti, quelle operazioni di salvataggio, quei naufraghi fossero ormai routine, fors’anche una scocciatura. Il regista riesce nonostante l’estremismo del suo progetto a montare una narrazione, a intensificare la nostra attesa, obbligandoci a chiederci se quei migranti saranno salvati o no e tenendoci così incollati fino all’ultima inqudratura. Si parla in arabo, inglese, spagnolo, francese, russo. Cè qualcuno che racconta di una storia a Belfast durante la guera civile. Ma chi è ? perché lo fa, che c’entra? In ottemperanza alle nuove leggi del documentario figo non ci vengono forniti spieghe e aiuti di nessun tipo, nessuna coordinata che possa orientare nel flusso incessante di informzioni e anche chiacchiere che ci vengono riversate addosso. Si ammira la radicaltà dell’operazione, quando funziona. Ci si incazza quando anche noi andiamo alla deriva, come quei disgraziati in mezzo al mare. Certo che la Berlinale è schizoide, capace di infilarti in concorso un autore medio per non dire peggio come Lee Tamahori e poi di stroncarti a Forum con cose come questa. Che però almeno ti strizza il cervello e qualche pensiero te lo induce. Voto 6
Hail, Caesar! /Ave, Cesare!) di Joel e Ethan Coen. Fuori competizione. Voto 7+
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Liliom Ösvény (Liliom Lily), di Bence Fliegauf. Ungheria. Sezione Forum.
Mi aspettavo molto dall’ungherse Fliegauf che nel 2012 aveva portato qui a Berlino in concorso il bellissimo e allarmante Just a Wind, poi vincitore di un Orso d’argento. Invece Liliom Lily è delusione cocentissima, un vero disastro. Un family drama con molte e non necessarie derive nell’onirico e nel fantastico, in un garbuglio spesso e opaco che non ti lascia mai intravedere un pur minimo senso. Una madre e il figlio ragazzino. Lei gli racconta una favola parecchio dark su un bambino (0 bambina?) di nome Honey inseguito da nemici e minacciato da pericoli vari. Si intuisce che il racconto alluda a un qualche terribile segreto di famiglia: pedofilia? un misterioso delitto? altre cosacce? A poco a poco il film dipana se non l’enigma almeno qualche brandello dell’intricata storia, e però lo fa con un sussiego e un’altezzosità autorialiste di massima antipatia. Con affettazioni sentimentali e riprese da mal di testa con la macchina a mano e dettagli luridi. Dei due protagonisti non ci importa mai niente, né della madre né del figlio, antipatici come sono, e arriviamo esausti alla fine, senza che neanche ci sia chissà quale rivelazione o colpo di scena. Ma cos’è successo a Fliegauf? Voto 3

Hee

Hee di Kaori Momoi. Giappone. Sezione Forum.
Tratto da un libro ispirato, pare, a una storia vera. La giapponese Azusa vive espatriata a Los Angeles, è nei suoi quaranta forse cinquanta, assomiglia in modo impressionante a Krizia, di mestiere fa la prostituta. La vediamo in terapia da uno psicanalista suo connazionale, e pure lui emigrato in California, che la interroga sulla sua infanzia, e sul trauma che l’ha segnata: la morte in un incendio dei genitori, incendio da lei appiccato per gioco, o per sbadataggine, o forse intenzionalmente. Il ricordo di quanto successo allora si mescola durante le sedute con le confessioni sulla sua vita di prostituta. Lei è assai recalcitrante, poco collaborativa, cerca di sottrarsi al domande dell’analista, sembra vivere in una bolla psichica. Non ci sono grandi invenzioni registiche, l’andamento è piatto, con la macchina da presa quasi fissa sul viso di Azusa. Ecco, una puntata di In Treatment, senza però la sagacia narrativa di quella serie. Poi il twist. Scopriamo che il terapeuta è incaricato dalla polizia californiana di far confessare Azusa, di indurla a parlare, a rivelare qualcosa di un certo John, un suo cliente, misteriosamente sparito, e che gli inquirenti suppongono sia stato ammazzato da lei. Sicché il film vira sul thriler per quanto assai psycho, interessandoci un po’ di più, ma mai abbastanza. Finale aperto. Dopo Havarie e il film ungherese, un’altra delusione. Voto 4 e mezzo
Homo Sapiens, un film di Nikolaus Geyrhalter. Austria. Sezione Forum.
Di gran lunga il miglior film della prima giornata. Siamo vicini al risultato memorabile, altroché. L’austriaco Geyrhalter, di cui non ero mai riuscito per una ragione o l’altra  a vedermi fino a oggi un film benché sia considerato oramai un maestro del cinema del reale, ha lasciato tutti sbalorditi (applausone alla fine) con questo suo viaggio nel mondo degli edifici, delle cose, delle città abbandonate e oggi in spettacolare degrado. Rovine della nostra civiltà già parecchio tecnologica e anche consumistica, pezzi di un mondo che è stato apena ieri e l’altroieri e già non è più, un mondo quasi tutto del secondo Novecento, e spesso degli ultimi anni del secolo. Purtroppo l’austero Geyrhalter, ottemperando al vizio e al vezzo imperanti tra i documentaristi d’alta gamma e chic di dare meno info possibili e di lasciar parlare le immagini (vedi quanto detto sopra di Havarie), non ci dice, neanche alla fine, neanche nei titoli di coda, quali siano le location in cui è andato pescare i suoi tesori disastrati e distrutti. Si immagina ci sia molto della ex Unione Svietica, anche delle repubbliche centroasiatiche, di Chernobyl, e gli edifici con insegne in ideogrammi dove saranno? Forse a Fukushima? E chissà, in quegli ospedali abbandonati con tanto di attrezzature non ci sarà magari anche qualcosa della nostra Italia, di quelle colossali infrastrutture sanitarie mai utilizzate e subito degradate? Dura un’ora e mezza, e vi garantisco che non ci si annoia mai, mai. Geyrhalter sa variare all’infinito il suo unico tema, sa sorprenderci ogni volta con nuovi splendidi orrori, sa estrarre bellezza assoluta e abbagliante dalla miseria dell’abbandono. Riprendendo perlopiù a camera fissa frontale, con vocazione alla simmetria, in questo parente del suo conterraneo Ulrich Seidl, con cui divide il fascino dell’orrido (e nella compagnia degli impassibili esteti austriaci del pessimo e del malato possiamo arruolare anche Michael Haneke). Così il documentarista sommo estrae da quello scempio la purezza assoluta, una bellezza che ha la fissità oltre ogni tempo dei ruderi antichi. Non c’è presenza umana, tutto è rigorosamente post-human, gli unici quasi inavvertibili movimenti son dovuti alla pioggia che cade incessante, agli uccelli ormai padroni di volte crollate e ambienti divelti, agli arbusti piegati dal vento. Non c’è voce fuori campo, non ci sono didascalie, tutto si sussegue nel silenzio. Si procede per blocchi tematici, ma con una certa libertà e senza rigori ossessivi. Shopping center, teatri, cinema, bar, ristoranti, palestre, scuole, velodromi, ospedali, centri scientifici, stazioni spaziali, fabbriche di utensili, armamenti, ferrovie, strade. Fino all’apoteosi dell’ultima parte, intere città spettrali, morte, incagliate tra acque o sabbie o nevi. Forse in riva al lago Aral, forse sorte intorno a una qualche base navale o militare sovietica e poi lasciate dopo il crollo dell’Urss. Cose che non si dimenticano: un cimitero di macchine in una grotta-foiba con fiume sotterraneo, una fabbrica abbandonata di quelli che sembrano mangiatoie per uccelli, un rollercoaster ridotto alla sua struttura ferrigna e in parte divorato dall’acqua, una montagna di teschi e ossa d’animali, forse un mattatoio, forse una stalla. Si resta a momenti sopraffatti da tanto squallore e da tanta bellezzae, e ci si chiede perché luoghi che da vivi avremmo trovato orripilanti e avremmo evitato con cura, come quei centri di divertimento asiatici, come quei mall allucinati, ora ci appaiano meravigliosi. Il brutto quando muore si sublima nel suo opposto e trova il suo riscatto autoannientandosi. Con parecchi riferimenti e interferenze con l’atte contemporanea: quegli squarci, quella forme ammassate, quelle strane creature childish-pop alla Jeff Koons, quei fasci netti di luce che sembrano un’installazione di Dan Flavin. Non c’è storyrelling, eppure questo è uno dei film più narrativi che si siano visti da un bel po’ di tempo in qua. Homo Sapiens non racconta storie, te le fa immaginare, scatena la tua mente, ti spinge a formulare ipotesi e scenari: chi abitava e lavorava in quei luoghi? E perché sono stati abbandonati di colpo? Disastro naturale? O sommovimenti geopolitici che hanno ridisegnato la vita collettiva? O crisi economiche che hanno indotto le fabbriche a chiudere o delocalizzare lasciandosi dietro quegli enormi scheletri? Spero davvero che qualcuno lo porti in Italia. E non si capisce perché la Berlinale un film di tale livello non l’abbia messo in concorso relegandolo a Forum. Voto 8 e mezzo