Ecco la prova che in Italia il comunismo non è ancora morto: il culto della personalità è ancora vivo, ancorché postumo. A leggere sulla stampa di sinistra gli articoli celebrativi vergati con commossa partecipazione per il trentennale della morte di Enrico Berlinguer c’è veramente da scoppiare dal ridere: un santo, un gigante, un profeta. La grande stampa non forsennatamente di sinistra, invece, si adegua d’ufficio al culto omaggiando quanto meno la laica moralità – cioè la lugubre e gelida seriosità – dell’ex leader comunista. Eppure Berlinguer fece un sacco di danni. Verso la metà degli anni settanta cominciò, con moltissime cautele e a microscopici passettini, a sottrarsi all’abbraccio del Pcus solo perché con la scoperta degli Arcipelaghi Gulag e i crimini di Mao il comunismo come mito stava per crollare. Siccome non volle mai, fino alla morte, convertirsi onestamente – ripeto: o-ne-sta-men-te – alla socialdemocrazia, dopo la brevissima stagione dell’eurocomunismo, decise di avvelenare i pozzi della politica italiana con il lancio della «questione morale». Ecco che la famosa diversità comunista poteva rivivere, nuda e cruda stavolta, non rivestita da fisime marxiste: di qua i buoni e gli onesti, di là i cattivi e i disonesti, sic et simpliciter. Era lo stadio zero della politica, era lo stadio pre-politico della società, quando cioè la società (lo dico ai cantori della società civile) non è ancora civile. E lì infatti siamo rimasti.
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