Certo è vero, il cinema inteso come mera sequenza e riproduzione d’immagini, sarebbe privo d’interesse se non fosse sostenuto da un’arte terza che gli permettesse di essere altro da sé senza rinunciare a divenire se stesso; ambiguo è il cinema che sa essere immagine senza essere semplice visione e che è narrazione senza essere per questo solo scrittura. Il cinema descritto così ci appare come una forma dal profilo indefinito, come forma-informe suscettibile di variazioni che lo portano ad essere molte cose insieme senza mai essere qualche cosa da solo, ed è per queste ragioni che il cinema è, tra tutte le arti, la più rappresentativa del secolo scorso. È nel vuoto che il cinema produce quando accende la macchina da presa ed è pronto a stampare sulla retina dello spettatore il moto delle immagini, in quella solitudine che da solo non può colmare, che le arti – e in particolare la letteratura – prendono posto accanto ad esso. Sono spazi entro cui le “vecchie” arti gravate da reumatismi secolari trovano nuovo comfort. La pittura diventa fotografia. La musica, colonna sonora. La poesia, sceneggiatura.
Sforziamoci per un momento di considerare un pregiudizio quello che per un secolo è stato per il cinema il vincolo assoluto e irrinunciabile tra illusione e rappresentazione. Sarà possibile riprendere a fissare le immagini con quello stupore con cui Huygens fissava la lanterna magica? È poi così difficile pensare di sostituire la narrazione dialettica dei fatti con qualcosa d’altro? La storia, intesa come “ciò che il cinema deve narrare”, si può affrancare dal discorso e assurgere a proprio modello formale non più le strutture narrative bensì, per esempio, quelle musicali? Ecco da molto lontano entrare in sala dall’ingresso principale, la musica sinfonica. Berlino, sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann è una pellicola del ’27 che realizza con le note di Edmund Meisel proprio questa operazione. Il susseguirsi di immagini di Berlino, atomizzate in frammenti visivi senza alcuna pretesa narrativa, che seguono fedelmente solo il percorso naturale delle ore del giorno dall’alba alle ultime luci della notte, sono significative e dense di emozioni proprio perché “spiegate” solo e unicamente dalla musica del compositore austriaco.
Spogliato dalle vesti della narrazione in senso discorsivo, il film, attraverso la musica, ha la possibilità, e la esaurisce perfettamente, di proporci i simboli di una mitologia d’inizio secolo nella loro ambiguità morale, senza la fatica o la pretesa – a seconda dei punti di vista – di spiegarci se quelle cose che noi vediamo siano “bene” o siano “male”. La velocità e l’efficienza dei trasporti (in primis della locomotiva a vapore), il progresso della tecnica delle catene di montaggio, il benessere che la borghesia trae dallo sviluppo industriale, la forza dell’addomesticamento della natura all’uomo (come nella presenza di animali esotici al guinzaglio), l’ordine e la pulizia che regna sulle strade di Berlino fin dall’inizio della giornata lavorativa, sono gli idoli di una società che nella visione ruttmanniana emanano tutta la dignità che possedevano le antiche leggende e pretendono il rispetto che si presta alle confessioni religiose. La musica qui, appare evidente, non ha le proprietà della decorazione o dell’enfatizzazione retorica tipica delle colonne sonore, bensì si sostituisce alla voce del narratore e spiega il senso di quelle immagini senza consegnarci la chiave morale che fa spesso fare al film la fine del romanzo.
Il percorso qui intrapreso da Ruttmann nel ’27 non è rimasto, per fortuna, senza frutti; ultimo nel 2002 un documentario che Thomas Schadt intitola ancora una volta “Berlino, sinfonia di una grande città”. Nonostante un’ispirazione ben fondata che non tradisce una comunanza stilistica e un’intenzione estetica che, dopo quasi un secolo, possiamo ancora spiegare come “nuova”, le differenze con il film degli anni trenta sono molte ed eloquenti. Toccante per sincerità e palese ammirazione, l’inizio del prodotto cinematografico del 2002 con cui Schadt riprende le immagini dei fuochi sul cielo di Berlino, con cui capitolava il film del ’27, che stabiliscono una filiazione esplicita; questo incipit rimane l’unica occasione sfruttata dalla regista per richiamarsi alla poetica del lungometraggio del maestro. Da quel momento in poi, tutto cambia: registro e significato. Lo si capisce guardando il disordine creato dagli abiti indossati dai cittadini di Berlino che corrono fuori dalla loro prima metropolitana del mattino, dai volti che sconfessano una possibile stirpe tedesca, dalle automobili parcheggiate che invadono il centro storico. Certo, ci sono cose che sembrano non essere mutate: la catena di montaggio che produce il pane (molto più pane), le sigarette (molte più sigarette) o alcune feste dove eccentricità e lusso fanno dell’alta borghesia berlinese l’immagine del benessere. Ma è la musica che conferma poeticamente e sostanzialmente che proprio tutto è cambiato; non tanto a livello tecnico o stilistico – questo non ci interessa, si sta parlando di cinema non di musica -, quanto piuttosto nel suo relazionarsi alle immagini, che costituisce del film la sua chiave di lettura. La musica fa qualcosa che nella pellicola di Ruttmann non si sarebbe mai permessa e immaginata di fare, ovvero diventa di commento, discorsiva, critica, seppur non possa essere considerata una semplice colonna sonora.
Il contrasto, tra immagini e musica si fa critica morale; quando le immagini che riprendono le catene di montaggio vengono sgranate e, seguendo la fluidità e la dolcezza della musica, appaiono vicine al ritmo naturale della vita, il potenziale musicale si annichilisce di fronte alla critica e al pensiero con cui essa è manipolata: anche la storia del cinema è come tutte le storie un cumolo di macerie, con i suoi vincitori. Se la denuncia che questo film rivolge è tutta concentrata a smascherare le contraddizioni di una capitale dove, al benessere glorioso di pochi (nella Berlino degli anni trenta), si sostituisce un’apparente e disordinata fiducia di tutti nel nuovo secolo (il lavoro di Thomas Schadt si apre con il festeggiamento del capodanno del 2002) in cui sovrana è la confusione morale ed estetica (abiti e traffico nel 2002) nei luoghi dove prima regnava ordine e cura (nella Berlino del ’27), l’accusa che si può rivolgere a quest’opera, si rivolge direttamente al cinema stesso. Questo film non è riuscito a svincolarsi dal suo essere insieme storia e discorso, in senso todoroviano, nemmeno privandosi di un discorso narrativo; sebbene la sola presenza del materiale sonoro inarticolato invitasse alla rinuncia di una “spiegazione” dei fatti, Schadt non ha inseguito Ruttmann lungo la strada che cerca per il cinema una definizione autonoma e “nuova”, bensì l’ha costretto di nuovo di fronte al pendolo che lo ipnotizza da più di un secolo e lo fa oscillare ancora tra intrattenimento e cultura, spiegabile questa volta se non in forma di romanzo (vista l’assenza delle parole) in forma almeno di poema sinfonico.