Per Confindustria la manovra è timida. Ma per l’immaginifico Vendola basta e avanza per descriverla come “una violenza, un vero e proprio colpo di stato sociale”. Figuriamoci se fosse stata “coraggiosa”. Per gli economisti che scrivono sui grandi giornali di centro che guardano a sinistra, come la DC di tendenze suicide, la manovra non ha niente di strutturale, essendo tutta impostata su nuove tasse e pochissimi tagli. Ma per comuni, provincie, regioni, sindacati, associazioni rosse e gialle, bocciofile padane e lucane, e tutte le altre tribù italiche, i tagli sono sanguinosi, e ormai manca loro anche l’aria per respirare. Le sopramenzionate gazzette amaramente deploranti il corto respiro di una manovra tappabuchi sono però le stesse che al governo non riconoscono nemmeno un micro-passettino nella giusta direzione, se quest’ultimo s’arrischia a dare una micro-ritoccatina alle pensioni e alle norme sui licenziamenti: l’importante è pontificare, ma ben allineati e coperti. Perché si sa bene che tali bagatelle bastano e avanzano all’immaginifica segretaria generale della CGIL per mettere un po’ di pepe alle motivazioni dell’immancabile sciopero generale, per parlare di manovra “ingiusta, repressiva e irresponsabile” e per minacciare di andare avanti con la protesta “fino alla Corte Costituzionale”. Per il presidente dell’Italia dei Valori, il sempre misurato Antonio di Pietro, questa manovra da tutti giudicata insufficiente costituisce però già un “omicidio politico ed economico” e chiede “alla collettività di organizzare una rivolta democratica”. E in caso di sufficienza cosa sarebbe stata? Un genocidio? Un crimine contro l’umanità?
Per Bersani la manovra “toglie i soldi a chi non li ha”: per il PD, infatti, una manovra qualificata e strutturale si concretizza nel ricavare “risorse da rendita e patrimoni”, nel dare la caccia con più efficacia agli evasori fiscali, in qualche dispendiosa ed economicamente distorsiva concessione ai diktat della lobby ambientalista, tutta roba che va benone anche nei comizi; oltre che nel riorganizzare e potare la pubblica amministrazione, nel varare liberalizzazioni e dismissioni non meglio specificate, che è roba buona solo per i comunicati stampa. Su pensioni e sanità silenzio religioso. Su questa base “riformista” annuncia di lavorare ad un nuovo Ulivo in coabitazione con gli esaltati di cui sopra, senza negarsi ad un’alleanza col centro, pur di riuscire a farla finita con l’era berlusconiana. Non contento di questa aria fritta, per scaldare il popolo dei migliori il segretario dei democratici si rifugia spudoratamente nel settarismo che ha fatto della sinistra italiana il più grande problema strutturale dell’era repubblicana del nostro paese. Dopo la scoperta e la conseguente appropriazione intellettuale del liberalismo di qualche anno fa, infatuazione oggi messa prudentemente in sordina, è ora la volta del patriottismo: “Siamo figli dell’unità del Paese e figli della sua costituzione che è la più bella del mondo. Con la coccarda tricolore ci siamo sentiti a nostro agio, la destra no. Noi siamo patrioti senza se e senza ma”. Lo stile è il solito: impadronirsi di un vessillo, magari a lungo tempo trascurato, per sequestrarlo ed esibirlo in odio agli altri, per alzare uno steccato, per definire dei confini. E per puntellare la propria cattiva coscienza. Non è vero che Bersani e i suoi siano figli dell’unità del paese: al contrario, sono figli dell’Italia più schizofrenica. Dell’Italia che s’inventò il tricolore per servaggio intellettuale alla Francia giacobina, dell’Italia più sensibile ai richiami del socialismo repubblicano e anticlericale nell’ottocento, dell’Italia più nazionalista a cavallo fra ottocento e novecento, dell’Italia più fascista durante il ventennio, di quella comunista del dopoguerra, di tutte queste Italie insieme, anche quando nel passaggio da un’era all’altra si sovrapponevano e combattevano. L’Italia dei diversi decaloghi cui via via uniformarsi, l’Italia unita piegando le plebi alle più capricciose ortodossie.
Per Casini, solidissimamente ancorato alla vacuità del suo equilibrismo tardo-democristiano, è il momento di scelte impopolari. Qui a parlare è Pier. Per non rischiare di doverle prendere arriva in soccorso Ferdinando, che si appella ad un governo di solidarietà nazionale, sostenuto dalle principali forze di maggioranza e di opposizione, e da quelle ausiliarie del terzo polo, a condizione che sappia cooptare figure di prestigio della società civile. Un governo prestigioso benedetto dal presidente della repubblica. Che funzionerà meravigliosamente. Nel mondo delle convergenze parallele, là dove ammucchiate e scelte impopolari vanno a braccetto.
Ecco perché non ci resta che Berlusconi, e la sua maggioranza.
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