Berlusconi ha sempre parlato di «rivoluzione liberale», ha sempre parlato di un fisco non oppressivo. Ha sempre parlato di una burocrazia leggera ed equa. Ha sempre parlato e basta. È chiaro infatti che tra il dire e il fare berlusconiano c’è di mezzo il mare, o meglio la politica italiana, fatta di interessi, contro interessi, affari, privilegi di casta, poteri occulti e meno occulti… Insomma, un’incrostazione calcarea che disperde l’acqua (il denaro pubblico) in mille rivoletti che vanno ad alimentare un sistema vecchio, inefficiente e parassitario all’ennesima potenza. Si potrebbe persino sostenere che tra la riforma liberale e la sua attuazione c’è ancor oggi un muro di gomma che affonda le proprie radici culturali e politiche nella logica comunista dello Stato che deve mantenere i cittadini, i quali per questo non godono della piena libertà delle proprie azioni e del proprio lavoro. L’utilità sociale dell’iniziativa economica privata – principio costituzionale voluto soprattutto dalla sinistra – è proprio il riflesso speculare di una concezione beceramente socialista dell’economia, che ha da sempre reso la nostra capacità produttiva avvizzita, mezza sterile, e fortemente dipendente dal denaro pubblico.
Oggi – nel 2011 – non è più possibile perseguire politiche assistenzialistiche o di finanziamento a pioggia delle iniziative economiche, come la sinistra vorrebbe, nascondendosi dietro il mantra del lavoro o dell’assistenza ai meno abbienti. Non lo è, perché operiamo all’interno di un meccanismo che costringe il nostro paese al rispetto di alcuni parametri contabili, economici e politici che non dipendono dal Governo, ma dall’Europa. La quale più non tollera – a ragione o torto – le lievitazioni incontrollate del debito pubblico e i conseguenti disavanzi di bilancio, che espongono gli Stati membri alle aggressioni finanziarie internazionali e alla conquista dei debiti sovrani da parte di nazioni spregiudicate e poco rispettose dei diritti umani come la Cina. Della quale, peraltro, l’Europa è già in parte ostaggio.
Ecco perché è opportuno che le manovre economiche abbiano la capacità di risistemare i conti pubblici, anche imponendo sacrifici ai cittadini. La crescita economica è fondamentale, ma un eventuale trend positivo diventa la classica «vittoria di Pirro», nel momento in cui lo Stato è fortemente indebitato, perché la crescita serve per pagare i debiti (tramite le tasse), i quali a loro volta deprimono i consumi e determinano nel lungo periodo l’inversione della crescita medesima. Insomma, un meccanismo perverso, che può essere interrotto solo se si risanano con una certa determinazione i conti pubblici. E Tremonti sta seguendo proprio questa strada, seppure alimentando diverse perplessità.
Le quali sono chiare. Mi pare infatti che, nonostante il nobile tentativo, ci sia scarso coraggio in questa manovra. Il mero perseguimento del pareggio contabile è sicuramente fondamentale, ma non è sufficiente per dare un input positivo alla nostra economia. Io credo che sarebbe stato opportuno dare un segnale forte, operando qualche limatura capace di imprimere ottimismo: magari tramite un’anticipazione sulla riforma fiscale; magari attraverso l’attenuamento della pressione fiscale per i redditi meno bassi. Magari, incentivando ancor più l’iniziativa economica privata, di cui l’Italia ha un disperato bisogno se non vuole ridursi a un popolo di dipendenti, o peggio di dipendenti pubblici (quando il turn over lo permette) che non consumano o consumano poco, e risparmiano ancor meno.
Tornando perciò all’incipit di questo post, Berlusconi aveva promesso la «rivoluzione liberale», ma ancora una volta decide di rinviarla a data futura: certus an incertus quando. Il che può anche essere politicamente opportuno: è evidente che l’attuale congiuntura internazionale non permette azzardi, né una diminuzione sostanziale della pressione fiscale, o incentivi ai settori economici in difficoltà, però è chiaro che tra il non fare e il fare poco, c’è una differenza non solo contabile ma anche di sostanza. Forse Berlusconi, e con lui Tremonti, avrebbe dovuto fare poco, piuttosto che non fare, nascondendosi dietro la logora giustificazione che, ancora una volta, «non si è messe le mani nelle tasche degli italiani». Vero. Ma anche questa verità, alla fine, è solo un’illusione.
di Martino © 2011 Il Jester