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Bersani-Camusso-Vendola e quel patto conservatore per provare a vincere senza convincere

Creato il 31 gennaio 2013 da David Incamicia @FuoriOndaBlog
Bersani-Camusso-Vendola e quel patto conservatore per provare a vincere senza convincere Manca ancora un mese alla data del voto, ma la campagna elettorale delle vecchie coalizioni di destra e di sinistra è già intensa ed accesa. Gli attori dell'inconcludente bipolarismo che fu non fanno altro che rinfacciarsi le colpe dei guasti dell'ultimo ventennio, sfoderando le rispettive armi di propaganda e, non di rado, di pessima e urticante disinformazione. Non mancano gli incidenti di percorso, dovuti presumibilmente al fastidio e all'impreparazione dinanzi al nuovo schema imposto dalla presenza in campo di Monti, l'unico che sta provando a proporre contenuti concreti agli italiani. E allora capita che il nervosismo induca Berlusconi a solleticare gli entusiasmi dei nostalgici post-fascisti con un endorsement postumo al Duce, al punto da riguadagnarsi l'isolamento internazionale; oppure che la "sorte avversa" faccia inciampare Bersani nel pasticciaccio del Montepaschi, ennesimo esempio di ingerenza partitocratica nella vita sociale ed economica del Paese che dà ragione a quanti - e sono tanti - nel mondo guardano con diffidenza all'eventualità di un governo troppo gauchiste.
Dell'anomalia berlusconiana non c'è davvero più nulla da scoprire, vale pertanto la pena concentrare l'attenzione sulla parte che, stando ai sondaggi odierni (ma per capire quanto questi siano poco attendibili basta chiedere a Occhetto o a Prodi), dovrebbe appunto vincere pur senza convincere: il fronte "progressista" dell'asse Bersani-Camusso-Vendola. Proviamo allora a metterne in evidenza i limiti e le contraddizioni.
Come scrive l'economista Nicola Rossi sul sito dell'associazione Italia Futura, nell’Italia dell’immediato dopoguerra il reddito pro capite superava a malapena i 4 mila euro, la speranza di vita arrivava a stento ai 65 anni, un italiano su dieci di età compresa fra i 15 e i 19 anni era analfabeta ed oltre un bambino su dieci lavorava, un italiano su tre non aveva le risorse per acquistare beni e servizi essenziali. Da quella Italia ci dividono gli anni del boom economico, l’autunno caldo e la non convertibilità del dollaro, le crisi petrolifere e la crescita del debito pubblico, la terziarizzazione dell’economia, la globalizzazione e la rivoluzione digitale. Eppure, per il principale sindacato italiano - la Cgil - la cassetta degli attrezzi rimane sempre la stessa. Negli obiettivi intermedi: un vasto programma di lavori pubblici, interventi significativi nei settori della spesa sociale, la nazionalizzazione di settori strategici. E negli strumenti: la tassazione delle classi più abbienti e i prestiti esteri.
Insomma, per Susanna Camusso e più marcatamente per Maurizio Landini l’idea è che di lavoro, equità e giustizia sociale si possa discutere oggi come oltre mezzo secolo fa, come se la demografia, la tecnologia, l’apertura dei mercati fossero null’altro che sgradevoli inconvenienti e non invece fattori in grado di mutare la natura stessa del lavoro e la stessa declinazione dei concetti di equità e di giustizia sociale. In definitiva, l’idea che a squilibri socio-economici profondamente diversi possa - anzi, debba - corrispondere sempre e comunque lo stesso intervento pubblico.
Del resto, la staticità del modello economico e sociale incarnato dalle politiche sindacali della Cgil è riassumibile nei tre slogan a cui la stessa Susanna Camusso ha fatto ricorso presentando recentemente il suo piano per il lavoro: "il lavoro è come il pane", "il vero tema sono le diseguaglianze" e, soprattutto, "l’intervento pubblico non è una bestemmia". Slogan che diventano programma di governo attraverso la completa ed esplicita condivisione di Nichi Vendola, l'altro dominus della gioiosa e sinistra macchina da guerra di occhettiana memoria, che intervenendo nella stessa assise di rosso dipinta ha dichiarato senza mezze misure: "questa sì che è una proposta innovativa!". L'innovazione, dunque, per la strana e antica sinistra italiana consiste nello spremere le già fiacche casse pubbliche, per utilizzarle magari in modo ideologico a esclusivo vantaggio di chi è già tutelato.
Rileva in un suo editoriale Errico Novi su liberalweb che tutto ciò si sta svolgendo sotto gli occhi impotenti - ma in fondo complici - del candidato premier dello schieramento progressista Bersani, terrorizzato dallo spettro di un pareggio al Senato e dalla circostanza che la golden share del prossimo governo possa finire nelle mani del serio e rigoroso Monti. Tanto che in questa campagna elettorale sembra di assistere a uno strano gioco delle tre sinistre, unite anche dall'astio verso l'intruso Professore: l’incompiuta sinistra riformista del Pd, la sinistra narrativa di Vendola, la sinistra postoperaista della Cgil. Ed è del tutto evidente che sia la Signora Camusso - Vendola adiuvante - a dettare la linea. Una linea fatta per l'appunto di slogan che affondano le radici in vecchi feticci ideologici. Si pensi, ad esempio, alle feroci proteste che puntualmente si scatenano da sinistra quando si prova anche solo a discutere "laicamente" dell'esigenza di ammodernare il welfare o di riformare l'istruzione e perfino la Costituzione. E si pensi, ancora, a come sia facile, da quelle parti, mobilitare il proprio popolo al grido di "patrimoniale ai ricchi" o di "l'articolo 18 non si tocca".
Questa sinistra conservatrice, per tornare all'analisi socio-storica di Nicola Rossi, difende istituzioni modellate sulla società preindustriale, basata sulla chiusura rigida a ogni forma di mobilità e di innovazione in ossequio a una visione dirigista. Ma, prendendo spunto dall'ultimo slogan che campeggia sui manifesti elettorali di Bersani in questi giorni, è davvero giusta l'Italia che, ad esempio, si illude di contrastare la disoccupazione giovanile impedendo qualsiasi intervento di riforma nel settore dell'istruzione e finendo paradossalmente per tenere a lungo parcheggiati i giovani stessi in un sistema di università ridotte ormai a esamifici? E' giusta l'Italia che, allo stesso tempo, non esclude la possibilità di reintrodurre il regime dei prepensionamenti proprio col falso pretesto di favorire il ricambio generazionale nel mercato del lavoro, misura che invece amplierebbe drammaticamente la disparità di trattamento fra i soliti protetti e le nuove generazioni? E quella che difende un sistema sanitario pieno di falle e di sprechi, inquinato dal controllo asfissiante dei partiti che genera da sempre illegalità diffusa e disservizi, è un'Italia giusta? Insomma, l'Italia che si riempie la bocca dello stereotipo della "giustizia sociale", evitando però puntualmente di affermare il sacrosanto principio della meritocrazia in ogni campo del vivere civile, è davvero giusta? No, questa Italia è semplicemente vecchia e non più sostenibile.
E' un'Italia che forse stavolta, arginando la propria innata vocazione al "tafazzismo" e grazie al Porcellum che si è guardata bene dal riformare, riuscirà a non perdere le elezioni, ma non potrà mai avere una piena fiducia da parte dei milioni di cittadini che non si lasciano incantare dalle solite frasi politically correct: "noi siamo un partito, loro sono le Coop", "noi siamo un partito, loro sono la Cgil", "noi siamo un partito, loro sono una banca". E non basterà a Bersani improvvisarsi bullo minacciando di sbranare chi avanza legittime critiche per dissimulare l'unica vera realtà sotto gli occhi di tutti: il Pd e i suoi satelliti minori di sinistra sono l'ultimo residuato di "partito-Stato" in Italia, che tutto vuole controllare, dal più piccolo condominio di provincia al governo del Paese, con sfacciata protervia.
Soltanto Veltroni prima, in modo più concreto, e Renzi dopo, pur cedendo a sua volta al semplicismo degli slogan, hanno tentato di modernizzare la sinistra italiana provando ad affrancarla dagli antichi settarismi e dalle influenze di apparati come la Cgil. Ma il risultato, purtroppo prevedibile, è stato quello di farsi mettere ai margini dentro il PD. Un'occasione persa non soltanto da quello schieramento, bensì dal sistema politico nel suo complesso che oggi si ritrova ancora immerso nell'infinita transizione della squallida e improduttiva Seconda Repubblica caratterizzata dallo scontro radicale fra due modelli culturali: quello dell'interesse privato (il berlusconismo) contro quello dell'intervento pubblico (l'asse Pd-Sel-Cgil).
Chi ha voglia di mettere fine a tutto ciò ha davanti a sé tre strade: può cedere alla rassegnazione e a quel fatalismo autodistruttivo che porta a ritenere che tutti i politici sono ugualmente "brutti, sporchi e cattivi" e mai nulla in Italia potrà cambiare sul serio, disimpegnandosi di conseguenza dal dovere di recarsi alle urne; oppure può trasformare la propria esasperazione in rabbia, affidandosi al qualunquismo a buon mercato ma privo di sostanza di un divertente (e furbo) showman come Grillo; infine, può scegliere di dare fiducia alla serietà, alla responsabilità e alla competenza di Mario Monti, che a dispetto delle tante accuse complottarde ha umilmente accettato la sfida di sottoporsi al giudizio democratico dei cittadini.
L'unica Italia giusta - che può "con-vincere" - non è quella che sa solo lamentarsi né quella incapace di accorgersi che le vecchie ricette sono ormai inapplicabili, ma è quella che considera possibile il cambiamento e cerca di realizzarlo mettendo in gioco il proprio buonsenso e la propria forza di volontà.

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