Betty [racconto]

Creato il 03 novembre 2013 da Elgraeco @HellGraeco

Visto che mi sono messo in testa di fare lo scrittore, scrivo.
Questo è un piccolo racconto che sfrutta l’ambientazione distopica di Margine (altro mio racconto) alla quale ho già accennato QUI e QUI. Giusto per farvi vedere che la storia prosegue, il progetto anche e pure l’intenzione.
Spero vi diverta. Buona domenica.

- Betty -

Uscì, passando dalla luce ocra dell’interno al cono rosso proiettato dall’insegna del Diner, proprio sopra l’ingresso.
Fuori, la tangenziale buia e il profumo dei fiori di saguaro; il contorno blu elettrico delle Centrali di Emissione Virtuale disegnava le basse colline che cingevano la valle.
L’aria frizzante gli solleticò il collo sudato, s’allargò la tuta aderente con un dito. Poi afferrò Jane per il polso e la trascinò fin verso l’angolo, sotto il faretto verde.
«Ehi, fai piano!» protestò lei.
La mise spalle al muro e la baciò, infilando la mano sotto la gonna corta. Jane ridacchiò. «Che hai, stasera?» fu ciò che gli parve biascicasse contro le sue labbra.
Lui si fermò, allontanando il viso. «Andiamo da Prada!»
«Di nuovo? Uffa, perché proprio lì?»
«Non ho soldi per il Drive-In. E poi perché mi dà i brividi. E anche a te.»
«Appunto per quello. Non è che mi vada molto di andarci.»
«Dai, su…» Le scoccò due o tre bacetti sulle labbra. Jane mantenne un contegno serio per poco, sbottò a ridere, allontanando la mano di lui dall’elastico delle mutandine. «Ok, ci sto. Se la smetti…» Lo spinse via, dirigendosi verso la Honda.
Lui si staccò, ammirando il proprio riflesso nel vetro della saletta spenta. Si rassettò i capelli, si mise in posa, ammirò le rifiniture lucenti di giallo, che decoravano i bordi della tuta nera, disegnando circuiti e simboli del Sistema. Aveva scelto il colore giallo, come quello che vestivano i programmi cattivi di TRON. Fu soddisfatto di sé, quel costume gli era costato un occhio, scala di realtà 1 a 1.
«A proposito, Sam…» fece Jane, accanto al serbatoio nero della quattro cilindri. «Quand’è che la smetterai di vestirti da idiota?»
«Adesso ci spariamo anche la musica, altroché. Le Outlands!»
«Crepa…»

*

«Dai, spegni quest’affare!» urlò Jane attraverso l’interfono del casco.
«Mi ricorda un vecchio film di Batman!»
Sam tirò delicato la leva del freno, la Honda rallentò. Il faro illuminò un cubo di calcestruzzo, con un unico ingresso, l’insegna e due vetrine. Intorno a quella struttura non c’era niente, solo il deserto e i cactus, che però si vedevano solo di giorno. Accostarono.
«Lo vedi? È… incongruo» fece Sam.
Jane gli si strinse contro. Lui la prese per un polso, scostandole la mano fino a metterla sulla patta. L’altra si ritrasse, sbuffando seccata. «Sei un cretino!» lo apostrofò.
Smontarono, sfilandosi i caschi.
Lei glielo gettò contro, poi s’avvicinò di qualche passo alla vetrina, stringendosi nel k-way. «Si sa quando apre?»
All’interno del negozio c’era solo un pulpito elettronico per le transazioni, non un vero e proprio bancone, con ogni probabilità ci avrebbero piazzato dietro un androide Lei™, o forse addirittura un ologramma interattivo tridimensionale. Intorno al pulpito c’erano gli scaffali, anche quelli a proiezione tridimensionale, o forse meglio.
«Sai cosa si dice in giro?» Sam osservò gli angoli del negozio, niente allacci elettrici o idrici, niente videocamere e dalle dimensioni della sala visibile dalle vetrine, quel posto non aveva neppure un retro, un magazzino.
«No, che si dice, genio?»
«Che all’apertura, in concomitanza con l’autostrada e il centro commerciale, monteranno gli scaffali veri, basati sulla scomposizione dei quanti: teletrasporto.»
«In pratica, ordinerò un paio di scarpe alla troia sintetica al bancone e quelle appariranno sullo scaffale?»
«Sì… fantastico, no?»
«E perché si trova nel nulla?»
«Credo sia qualcosa che ha a che vedere col campo elettromagnetico della nuova apparecchiatura, qualcosa del genere…»
Jane fece spallucce.
Lui la cinse da dietro, baciandola sul collo. Lei si girò tra le sue braccia, facendogli una carezza che si tramutò in un piccolo schiaffo. La lingua di lei entrò nella sua bocca, morbida.
Sam aprì gli occhi e guardò distrattamente nell’oscurità, fermandosi, la lingua di lei tra le labbra.
Jane mugugnò di protesta.
La lasciò andare, ricevendo uno spintone. «Che ti sei sparato in vena, stasera!? Vuoi farlo o no?»
«Guarda laggiù…» Indicò una sorgente luminosa bluastra che mandava scintille, sospesa a mezz’aria, nel buio. A centinaia di metri da loro.
«Un fuoco fatuo?» chiese lei, pulendosi dalla saliva con la manica del k-way.
«È elettrica. I fuochi fatui sono frutto della decomposizione. Sai cosa c’è laggiù?»
«Un cimitero?»
«Ma mi ascolti? Là c’è la vecchia fabbrica. Quella delle Betty™…»
Le nuvole si spostarono facendo uscire la luna, che disegnò sotto i loro occhi la sagoma silenziosa della lontana struttura.
«E allora?» chiese Jane, braccia conserte.
«Andiamo a vedere, dai!»
Lei sbuffò. «Mi sono depilata per niente.»

*

La struttura della fabbrica era fatiscente, con pezzi di vernice scrostata. La finestra da cui aveva visto il bagliore era al secondo piano, sempre che fosse riuscito a orientarsi bene.
Il portone d’ingresso era arrugginito e quasi divelto. Una delle ante piegata verso l’esterno, il cardine superiore spaccato.
L’insegna al neon martoriata da fori di sassi e dal guano dei synthecondor, che cagavano più dei condor veri, seguendo protocolli d’adattamento spontanei.
«Ma che vuoi che ci sia là dentro?» fece Jane.
«Forse è solo una dispersione. Ma voglio darci un’occhiata. Chissà che non troviamo qualcosa da vendere, un componente di ricambio, un circuito.»
«Sì, componenti di androidi andati fuori produzione da quasi dieci anni. Accompagnami a casa, dai.»
«Solo pochi minuti, promesso.» Sam mise gli indici a croce sulle labbra e scoccò due bacetti. Poi tirò un calcio all’anta ancora intera. La lamina cedette attorno allo stivale e la gamba penetrò all’interno, nel foro, ginocchio compreso. Sam avvertì il metallo graffiargli la coscia. «Merda!»
La estrasse piano, appoggiandosi alla porta. Fece luce con un braccio della tuta, bestemmiò quando notò uno sbrego nel tessuto. Ci mise la punta delle dita, le ritrasse sporche di sangue. «Cazzo!»
Jane afferrò la maniglia dell’anta piegata e la tirò dolcemente all’esterno. Sorrise.
«Mi verrà il tetano?»
«Solo pochi minuti» fece lei. «Poi ti porto alla Guardia Medica.» Rise.
«La mia moto non la tocchi!»
Jane entrò. Lui si sincerò che la ferita fosse poco più di un graffio, e la seguì imprecando.

La ragazza prese il cilindro attaccato al portachiavi a testa di coniglietto rosa, lo avvitò su se stesso. Proiettò un fascio di luce azzurrina fino in fondo al corridoio, illuminando cartacce, rifiuti ammonticchiati negli angoli e qualche topo che sgattaiolò via silenzioso.
«Sei sicuro di volerlo fare?»
«Sì…»
«E sei sicuro che fosse una fabbrica?»
«Sì… perché?»
«Niente, solo che… mi chiedevo cosa ci facesse laggiù… quella
Sam seguì il fascio di luce. Dalla parte opposta del corridoio, nel mezzo, c’era una sedia a rotelle impolverata, una delle ruote posteriori piegata. «Cazzo…»
«Cos’è, fabbricavano anche androidi senza gambe?»
«Magari era di uno degli impiegati, su, non drammatizzare.»
«E chi drammatizza?»
«Ecco le scale!» esclamò Sam. Si affrettò. Intorno a lui, la tuta proiettava un alone giallastro che peggiorava l’atmosfera, precipitandolo in un vecchio film horror della Hammer.

Seguirono la puzza di plastica bruciata, con Jane che gli stringeva la mano così tanto da avergli bloccato al circolazione.
In una stanza al secondo piano, fra tavoli di metallo morsi dalla ruggine, con sopra braccia spezzate e polverose e occhi da cartone animato sfondati dai vandali, una sezione di carta da parati s’era sciolta rivelando una nicchia.
Al suo interno, braccia lungo i fianchi, testa enorme con riccioli sporgenti abbandonata in avanti, c’era un modello di Betty.
Sam si mise di fianco all’apertura nel muro seguendo l’ideale linea d’aria, che partiva dal robot, usciva dalla finestra e finiva sul negozio di Prada, centinaia di metri più in là, nel deserto. Annuì, poi tornò a dedicarsi all’androide.
Jane aveva afferrato un lembo di tessuto del vestito rosso da sera di Betty, lo strofinava con le dita. «È liso. Da quanto tempo sarà qui?» L’androide indossava anche scarpe dello stesso colore, con tacco a spillo.
«Cazzo ne so…» Si guardò intorno, afferrò un braccio di plastica, ci ripensò e o gettò via. Poi vide un copri-spigolo che sporgeva dal muro, era di legno. Lo staccò e con quello diede un colpetto alla testa di Betty, che non reagì. «Credo che l’elettricità si sia esaurita.»
«Devo fare pipì» disse Jane.
«Io cerco delle corde.»
«Che cosa vuoi…»
«La lego alla carena, pancia sotto, sul serbatoio. La portiamo via.»
«Tu sei fuori…»
Jane uscì in corridoio.
Sam cercò delle corde intorno a sé, uno spago, qualcosa. Fece per toccarsi la cinghia, ma si ricordo che indossava la tuta, sorrise. Poi partì la canzoncina. In dodecafonia, un po’ cavernosa, come i primi cellulari del ventesimo secolo.
Betty sollevò il capo con uno scatto, puntandogli contro gli enormi occhi azzurri, le sopracciglia convergettero all’interno verso il basso, la boccuccia si tese facendosi piccola, l’espressione irata. L’androide avanzò e protese una mano, le quattro dita si chiusero e s’aprirono come tenaglie, emettendo dei clac. Arrivarono a pochi centimetri dal collo di Sam. Una delle scarpe rosse s’era incastrata nella copertura di plastica sciolta. Betty piegò il capo a guardare, diede uno strattone. La plastica cedette.
Sam ricadde all’indietro, strisciando sulle mani e sui piedi.
Betty continuò a cantare, gli piantò un piede sui testicoli, schiacciò. Lui urlò.
L’automa si piegò afferrandogli il collo. Poi la testa si chinò brusca in avanti, gli occhi e il viso percorsi da scintille. Arrivò una seconda botta di bastone, le dita si chiusero davanti alla gola di lui, portandogli via pezzi di pelle.
Al terzo colpo sferrato, Jane gemette per lo sforzo. Il capoccione di Betty si piegò all’indietro, quasi divelto, mostrando i giunti e la copertura del sistema linfatico sintetico. Ricadde per terra, sbattendo come un epilettica, poi restò immobile.
Sam e Jane si guardarono. Lui tastandosi la gola e le parti basse, in affanno.
«Adesso mi accompagni a casa?» disse lei, porgendogli la mano.
Lui annuì, la raccolse, faticò a rimettersi in piedi.

*

«Hai ancora intenzione di venderla, vero?» gli chiese una volta fuori, montando sulla Honda, dietro di lui.
«Conosco un ex programmatore, vive in una roulotte, tra i cactus. Domani vado a parlargli. Se quel modello è raro come credo, riusciremo a farci parecchi soldi.»
«Ok, ma mi devi una serata.»
«Ti devo di più.» Le prese una mano e la baciò. Lei lo strinse.
Mise in moto.
L’aria era secca e gelida. Il cielo s’era aperto, si poteva scorgere la via Lattea.


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