Quando ero più giovane, i bidoni non mi piacevano. Ne ricordo uno in particolare di quanto avevo poco più di vent’anni, clamoroso; e bene ha fatto, il bidonaro, ad eclissarsi per il resto dei suoi giorni, perché avrei potuto prenderlo per le orecchie e allungargliele tanto da farci una sciarpetta.
Ma qui stiamo parlando del passato, sorry. Oggi, sarà che invecchiando si diventa più saggi e tolleranti, sento parlare di bidoni e sorrido.
Anzi, vi dirò: ho fatto di più. Mi sono fatta un bidone.
E ho fatto tutto da sola, sissignori. Contenta e felice come una Pasqua.
Scribacchina oggi è proprio spiritosa – o in preda ai fumi dello spirito, fate vobis :-)
Il Bidone di cui parlo è il famosissimo (…) progetto di Gianluca Petrella, una sorta di omaggio a Nino Rota e alle meravigliose colonne sonore scritte per i film di Federico Fellini. Un progetto reso ancora più prezioso dalla presenza di un personaggio che penso di aver già citato N volte su questo blog: l’inarrivabile, il funambolico, l’eccelso John De Leo. Uno che guardandolo così, minutino minutino, ti verrebbe da pensare: embé? cos’ha di particolare? E’ un ometto…
Il tempo di fargli aprire bocca e hai già cambiato idea.
Ma partiamo dall’inizio, cioè dal Bergamo Jazz, rassegna ormai irrinunciabile per la sottoscritta Scribacchina, tenutasi proprio questo fine settimana. Quest’anno – sarà l’età? – ho gettato la spugna e mi sono riservata di scrivere la cronaca alternativa per il blog dalla redazione. Così, mentre ho aperta la pagina da riempire con la cronaca «seria», scribacchio due cosette qui. Giusto perché «di là» mica posso dire che Myra Melford manco sapevo chi fosse. O che – orrore! – era la prima volta che sentivo Trilok Gurtu dal vivo. Già. Sapete, con quel po’ po’ di critici e criticoni della rivista specializzata XY o del mensile Z che giravano per il parterre, la sensazione di essere fuori luogo o di non essere all’altezza era fortissima.
Posso però dire di avere avuto una cosa a mio vantaggio: un certo savoir faire col basso (ma và?), che mi ha fatto sorridere non poco leggendo le recensioni di questi blasonati signori, che definivano «basso acustico» il basso che Stomu Takeishi ha usato nella serata di venerdì – i soliti lettori bassisti, oltre a chiedersi che diavolo di marca può essere un basso del genere, noteranno dalla foto qui sotto che si tratta di un fretless elettrico a cinque corte e pure senza paletta. Aggiungo che era ben amplificato da un bel cassone Ampeg. Ma questo è meglio se non lo scrivo «di là».
Come è meglio non dire niente dei miei vicini di poltroncina. La scena è sempre quella: platea del Donizetti, zona scribacchini, stesso posto per tre sere di fila. Dunque, la prima sera alla mia destra avevo un posto vuoto e, di là, una signora che si è fatta una bella ronfata durante il concerto di Joshua Redman. Bella, lì, abbandonata e con la bocca aperta. Immagino si sia lasciata andare dopo aver sentito un signore – perso nel buio, chissà dove – che russava beatamente. Sul set di Myra Melford l’avrei anche giustificato, ma di fronte alla magia di Joshua Redman è davvero imperdonabile.
Comunque, signora dormiente a destra; a sinistra, una coppia di critici estremamente loquaci. Un fiume di aneddoti, di ricordi di concerti passati. Zitta zitta li ho ascoltati, e devo dire che mi hanno dato più di uno spunto per compilare il pezzo serio per «di là».
Seconda serata: a destra, tra me e la signora ronfante si materializza un losco figuro, credo fosse il di lei marito. Immagino si sia pentito di essere venuto perché ai primi mugolii di De Leo l’ho visto coprirsi il viso con le mani e restare in questa posizione per tutto il set. Mentre la sua vicina di poltroncina, ovvero io, andava letteralmente in visibilio. Un po’ la legge degli opposti che si bilanciano.
Anche i vicini di sinistra non mi sono parsi particolarmente entusiasti della poetica di Petrella. O meglio: forse Petrella l’hanno pure apprezzato. Quello che non hanno digerito è stato De Leo. Sissignori: De Leo, l’inarrivabile, il mostro della variazione timbrica, l’uomo che ha mille strumenti nella sua voce, l’erede di Demetrio Stratos (o il fratello artistico di Mike Patton, a seconda). Una voce che a parer mio rapisce l’anima; poi, i gusti son gusti, i critici son critici, il pubblico è pubblico e… insomma, non ho sentito calore negli applausi. Non ho sentito grida, esplosione di consenso, particolari richieste di bis – a parte quello canonico. Non ho letto recensioni articolate dei colleghi nei quotidiani di ieri, tutto è rimasto appiattito sull’evento «Petrella Project». Al che mi sono improvvisamente resa conto di una cosa: John De Leo non è percepito come un jazzista dai jazzofili, nonostante le tonnellate di collaborazioni (una su tutte, lo stellare progetto Progressivamente di Roberto Gatto). Immagino venga visto come una macchietta, uno strano personaggio prestato dalla musica pop, in bilico tra generi ma senza appartenenza – basti leggere come viene presentato De Leo in tutte (dico, tutte) le rassegne alle quali partecipa: «ex Quintorigo» e «una delle voci più interessanti del panorama musicale italiano». Stop, nient’altro.
Bah, poco importa. Sta di fatto che John De Leo sul palco del Donizetti ha fatto cose non umane, ha graffiato e ha carezzato, con quella sua voce che arriva da chissà dove e che va chissà dove.
(video bruttino, trovato per grazia di Dio col lumicino… dovrò decidermi ad aprire un canale YouTube per questo blog con delle registrazioni serie).
Sempre durante la seconda serata, eventone: incontro ravvicinato tra Dave Douglas e Tom Harrell. Mai ammetterò «di là» che non conoscevo Tom Harrell, mai. Dirò soltanto, e lo dico anche qui, che la sua esibizione mi ha lasciata con una bella sensazione di amicizia, di calore, di affetto umano. E vado pure a dirvi il perché.
Inizia il set, salgono sul palco i cinque musicisti (tra i quali una contrabbassista, tale Linda Oh – e qui, va detto, il pubblico è stato tutto un «Oooooh» durante i suoi soli). Tom Harrell se ne sta lì, col capo chino, tutto curvo su di sé, quasi ingobbito; inizia a suonare, le mani della destra tremano quando preme i pistoni della tromba e del flicorno. Finito il suo solo, come un automa, abbandona le braccia lungo il corpo, torna col capo chino, e se ne sta immobile, perfettamente fermo, come se gli avessero staccato la spina. Riprende quando è il suo turno, si ferma; si rianima, suona il tema all’unisono con Douglas e poi torna immobile. Il Teatro esplode, tra grida e applausi, ma lui se ne sta zitto. Sembra risvegliarsi da una sorta di coma soltanto quando appoggia le labbra sul bocchino della tromba.
Sento il mio vicino di sinistra, l’espertone, che parla col suo amico e dice «beh sai, è malatissimo… una roba che non ti dico… sai come lo bombano di farmaci per farlo suonare?».
Già lo dissi: la curiosità è donna, e Scribacchina lo è. Curiosa e donna.
Un paio di veloci indagini su Google, ed ecco la verità: Tom Harrell soffre di una devastante malattia mentale, la schizofrenia paranoide. Per farla breve: sente voci che non esistono, ha pensieri paranoici, è estremamente a disagio quando sta in pubblico (con i problemi di relazioni sociali che possiamo immaginare) e ha pensieri ossessivi. Aveva quindi ragione il mio vicino quando parlava di farmaci: sembra sia sotto costante trattamento farmacologico per ridurre i sintomi e permettergli di vivere in maniera accettabile. Una cosa triste, però… sapete, vederlo suonare, soprattutto sentirlo suonare in maniera così sublime e vedere – sì, vedere con questi occhi – il miracolo che può fare la musica, ridare vita a chi non ce l’aveva più, ridare speranza, ridare emozione, e far sì che tutte queste belle cose vengano trasmesse a chi lo ascolta… e l’immagine di Dave Douglas, generalmente scherzoso e irriverente, che abbraccia l’amico Tom, gli sorride con amore e lo porta con sé giù dal palco, è stata una delle cose più belle di tutto il Festival. Al confronto, anche i vocalizzi di De Leo impallidiscono.
(registrazione di un concerto di Tom Harrell a caso. Eppure io ce l’avrei, anche, un registrazione dal vivo di sabato sera… lo so, l’hanno detto in mille salse che era vietatissimo registrare; eppure, proprio quando mi stavo mangiando le mani perché quel pezzo scritto da Harrell appositamente per il Bergamo Jazz – unico, introvabile – io l’avrei voluto avere per sempre sul mio iPhone, ho sentito Douglas dire: «Non fate i furbi, lo so che qualcuno di voi sta registrando; ma vi prego, non pubblicatelo su YouTube: tenetelo per voi. Un piccolo segreto da custodire, una cosa tutta vostra, ok?». Secondo voi cosa dovevo fare? ;-) )
Tornando a noi, mi rendo però conto che non tutti possono aver colto – al di là della musica – la bellezza umana del set di Douglas. Non per niente, la sera successiva i miei vicini di destra si erano eclissati, delusi dalle serate precedenti. Poco male: un paio di posti liberi per piazzare giacca, borsa, ombrello e accessori mi faceva proprio comodo.
Serata number three, dunque: Michel Portal e Vincent Peirani ad aprire. Bravi e tutto, ma ho preferito di gran lunga il set successivo. Capirai, c’era Trilok Gurtu…
Temo di aver scritto anche troppo, mentre «di là» aspetto di sapere quante righe posso scrivere; mi hanno già anticipato che non saranno molte. Vista l’ora, credo me lo diranno domani.
Vedete, la scarsa considerazione in cui è tenuta la cultura si vede anche da questo: sempre meno spazio per scrivere di cose belle, e proprio nelle pagine della cultura.
Beh, fossero anche cinque righe, ce le faremo bastare.
Domani.