Quella di mitigare i propri rapporti con Lukashenko è stata quasi una scelta obbligata da parte dell’Europa, alla luce del nuovo corso in politica estera avviato dalla Russia nel 2014. Dopo molti anni, Mosca si è ripresa in Ucraina orientale e in Siria quel ruolo di potenza che le mancava dai tempi dell’Urss, e con esso anche la capacità di influenzare con il suo peso le scelte dei decision makers nelle nazioni alleate come appunto è la Bielorussia.
L’ultimo capitolo del controverso rapporto di amore-odio tra Mosca e Minsk ha le fattezze del njet di Lukashenko alla costruzione di una base aerea russa su territorio bielorusso, che molti hanno interpretato come un sussulto per sfuggire al guinzaglio che Vladimir Putin si apprestava ad agganciare al collo della Bielorussia. I governanti di Minsk temono di ritrovarsi ad essere un Paese “satellite” della Russia, com’erano fino al 1989 la Polonia o l’Ungheria: se il Cremlino decidesse di rispolverare la “dottrina della sovranità limitata” di brezneviana memoria, la Bielorussia potrebbe esserne uno dei principali campi di applicazione.
Del resto, è innegabile che l’ex repubblica sovietica sia già attualmente oggetto dell’influenza culturale e politica di Mosca. La maggior parte della popolazione bielorussa parla il russo e guarda emittenti televisive russe, quindi viene informata da fonti d’informazione russe, il più delle volte governative e critiche verso l’Ue per le note ragioni legate alla crisi ucraina. Nonostante non gradisca affatto questa ingerenza, Lukashenko sa bene di non poter arginarla, almeno per ora: un eventuale strappo con il Cremlino in questo momento gli porterebbe solo guai.
Il leader bielorusso è ben conscio di non essere considerato a Mosca un alleato di fiducia, e che basterebbe mettere un piede in fallo per finire bersaglio dei media russi (mai molto teneri nei suoi confronti), con il rischio di perdere il consenso popolare e quindi il potere. È probabilemente ciò a spingere Lukashenko a rimanere sotto l’ombrello russo, come pure la stretta dipendenza di Minsk dall’economia del potente vicino, che di fatto rende la Bielorussia facilmente controllabile: un effetto negativo (ma prevedibile) delle sanzioni Ue del 2011, che isolando Lukashenko hanno finito per spingerlo, seppur di malavoglia, sempre più sotto l’ingerenza di Putin.
La moratoria dei quattro mesi a venire potrebbe dunque rappresentare l’incipit di un nuovo corso delle relazioni tra Unione Europea e Bielorussia, meno ideologico e più pratico. Ma se Bruxelles intende realmente allontanare i bielorussi dall’influenza russa, deve portarli dalla sua parte nel vero senso della parola: ovvero deve far conoscere materialmente loro un’ Europa che non conoscono, e che potrebbero anche preferire alla Russia. Come? Semplicemente favorendo la mobilità dei cittadini bielorussi verso i 28 paesi dell’Unione: partendo dalla semplice inclusione di studenti bielorussi in programmi culturali tipo Erasmus o in progetti di scambio di best-practice scientifiche, e giungendo ad un regime di liberalizzazione dei visti d’ingresso per chiunque voglia viaggiare e formarsi in Europa occidentale.
Sembra facile, ma bisogna anche ricordare che oggi, paradossalmente, un cittadino bielorusso che vuol andare in un Paese Ue incontra più ostacoli di un richiedente asilo siriano. E diversamente da quanto accadeva ai tempi dell’Urss non è il governo di Minsk a bloccare chi parte, ma l’Unione Europea stessa a creare problemi a chi arriva dalla Bielorussia, con procedure di ottenimento visti estremamente lunghe, complicate e costose: un vero e proprio disincentivo ai viaggi, anche in nazioni confinanti come Polonia Lituania e Lettonia.
Facilitando l’emissione dei visti e prolungandone la durata, l’Ue compirebbe un primo decisivo passo verso un reset dei propri rapporti con la Bielorussia: un passaggio necessario se vuole davvero che domani la Bielorussia possa incamminarsi verso di lei.