Per chi quotidianamente si occupa di arte credo, attualmente, sia inevitabile domandarsi come essa si possa specificare e cosa si debba considerare tale.
Non è certo semplice formulare una risposta alla domanda. Da millenni si avvicendano studi e tentativi di definizione per quello che è uno dei maggiori ambiti in cui si concretizza la necessità espressiva dell’uomo. Ognuno di essi serba in sé una parte di verità e offre spunti di riflessione da cui non possiamo prescindere.
L’arte contemporanea, più di ogni altro momento della storia dell’arte, si è prestata, e continua a prestarsi, ad equivoci che sovente conducono chi si appresta a dissertare in proposito ad un’impasse da cui non è semplice trovare vie d’uscita senza essere, come troppo spesso accade, semplicistici e “distruttivi”.
Non è mai stato questo il compito di chi produce pensiero. Doveroso è invece proporre analisi che consentano di comprendere ragioni e motivazioni di quanto ci circonda e accade intorno a noi a livello culturale. Perché la cultura, e quindi l’arte, non possono che innegabilmente raccontare un’epoca.
La difficoltà odierna di comprendere dove l’arte stia dirigendosi, di definirne canoni estetici e modelli interpretativi e “operativi”, dipende, senza dubbi, dalle contraddizioni del nostro tempo.
L’arte contemporanea nasce da una precisa necessità storica; dopo l’avvento della fotografia e dei nuovi linguaggi ad essa connessi, l’arte, estromessa dall’universo della rappresentazione, cessa di essere lo specchio del mondo. Si trova nelle condizioni di dover ridefinire il proprio ruolo, il proprio territorio di appartenenza, il proprio stesso intrinseco significato. Al termine dell’Ottocento ha inizio quel processo di abbandono del concetto di verosimiglianza che apre la strada all’affermarsi di un’autonomia della medesima rispetto al compito mimetico che per secoli le era stato proprio.
Questo comporta un ripensamento del ruolo dell’artista, che lo induce ad una nuova coscienza di se stesso e del fare pittura. Il quadro diviene – e questo sarà ancor più vero con le avanguardie – il luogo dove egli crea qualcosa che prima non c’era.
Questo spazio di libertà che si spalanca, quasi un “horror vacui” a cui trovare una veste, ha prodotto geniali attestazioni che – lungi dall’essere solo il prodotto di un atto creativo, di quel “fare” che sempre apparterrà all’artista (del resto il termine poesia, dal greco “poièsis”, reca chiaramente in sé l’etimo del verbo “fare”) e che presuppone conoscenza tecnica – sono anche, e soprattutto, atti di pensiero, attestazioni filosofiche, tentativi di concettualizzazione.
Purtroppo, però, la degenerazione di molta parte dell’arte contemporanea, gli equivoci a cui essa si presta, innegabilmente trovano le proprie radici appunto nella libertà espressiva e nel tentativo di giustificare ogni atto, anche gratuito, con l’etichetta di concettuale. Tutto diventa lecito.
Ma per chi conosce l’iter delle “Avanguardie Storiche”, di coloro che hanno saputo interpretare nel modo più alto e più significativo questo senso e significato di cui il post-espressionismo si è fatto portatore, è ben chiaro che libertà espressiva non significa affatto “assenza di valori”. Non possiamo limitarci a reiterare la formula che magici mondi possa spalancarci, dove tutto è accettato e possibile in nome del diritto di raccontare le proprie emozioni. L’arte ha in sé certamente anche questa ragione fondante, ma non può risolversi in essa, altrimenti ognuno – come spesso accade – potrebbe definirsi artista solo perché si arroga il diritto di manifestare se stesso e la propria visione del mondo. I valori tecnici, la conoscenza del mezzo e del linguaggio, del codice comunicativo attraverso cui si decide di esprimersi, sono imprescindibili, anche là dove li si scardina per innovarli.
Oggi invece la tecnica sembra essere considerata valore secondario e talvolta superfluo all’idea. Per anni la critica ed il mercato hanno supportato la convinzione che debba essere il messaggio ad avere rilievo e ruolo fondante. Non intendo negare il significato provocatorio che alcuni schemi formali sono stati in grado di esprimere.
Sarebbe come smentire uno dei fondamenti che l’arte contemporanea reca in sé e con sé.
Ritengo però altresì doveroso non accondiscendere, senza discrimine, alla tesi secondo cui nell’opera d’arte siano l’idea o il suo significato ciò che conta.
L’arte non può coincidere tout court con la filosofia. La filosofia ha infatti dedicato ad essa un ambito preciso di riflessione, quello dell’estetica. L’artista, a differenza del pensatore, si esprime attraverso l’opera, per eseguire la quale è necessaria la conoscenza dei mezzi del mestiere, ma soprattutto la capacità di dominarli. Molti, osservando realizzazioni artistiche contemporanee, si sono convinti che siano frutto ti tecniche ingenue. Nulla di più distante dal vero, che ha portato ad errori interpretativi, ad incapacità di lettura del valore di molti autori, ancor oggi non compresi nella propria rivoluzionaria portata storica, nonché alla mistificante convinzione che l’arte, intesa come il Novecento ce l’ ha proposta, sia alla portata di tutti.
Picasso disse che possedeva la tecnica pittorica di Raffaello, per dipingere poi tutta la vita come un bambino. Questa asserzione è certamente vera per molti dei più grandi maestri del secolo appena conclusosi.
Non è questa la sede per poter abbracciare l’immenso spazio dissertativo che si spalanca volendo parlare di crisi o di morte dell’arte.
Non voglio abbracciare in toto le tesi distruttive, per esempio, che Jean Clair ha proposto come riflessione nel suo ultimo e recente scritto “L’inverno della cultura”; indubbiamente mi sento di condividerle in parte, pur non approvando completamente lo spirito dissacratore che talvolta caratterizza il noto studioso. Innegabile la stanchezza, almeno da parte mia, nei confronti di quelli che nell’ambiente definiamo gli epigoni duchampiani, propugnatori del gesto fine a se stesso e portato all’estremo limite.
Sostenitori di uno stile non supportato da conoscenze tecniche, i post-dadaisti, spesso privi di mestiere, studiano solo le strategie del marketing. Si vendono come i testimoni di atti disperati che demonizzano il nostro presente, mentre in realtà lo cavalcano, ne sfruttano le dinamiche e si fanno testimoni e latori di quei valori che affermano di esecrare.
Cito per tutti Cattelan. Celebrato dal Guggenheim Museum di New York, che gli dedicherà una retrospettiva a partire dal 4 novembre, afferma che smetterà di fare l’artista. Farà il pittore. O meglio, farà dipingere qualcuno al posto suo, visto che, per sua medesima affermazione, non ne è capace. Niente sterili polemiche. Certo è che il suo dito medio in marmo di Carrara in Piazza Affari sembra arridere alla medesima società consumistica verso la quale polemizza.
Arriviamo ora, dopo questa lunga premessa, alla ragione per la quale ho voluto scrivere questo intervento.
Ho presenziato, giovedì 27 ottobre, all’inaugurazione, presso la Sala dei Re, in Galleria Vittorio Emanuele, del Padiglione Italia di Milano della 54a Biennale di Venezia.
Sappiamo come l’intento dichiarato ed esplicito di Vittorio Sgarbi, nel curare l’attuale Biennale, estendendo il Padiglione Italia ad altre città, sia stato quello di fotografare lo “stato attuale dell’arte italiana”.
Sgarbi, nel discorso di inaugurazione, ha certamente e abilmente giustificato, non certo dimenticando la demagogia, il proprio operato. Interessante il concetto espresso, secondo il quale questo apocalittico millennio si apre con tante e molteplici proposte, che sarebbe ingiusto ignorare senza far torto alla storia. Per altro condivisibile l’affermazione, suffragata da innumerevoli esempi, che proprio ad inizio secolo spesso vi siano stati i germogli che hanno aperto la storia dell’arte ad importanti novità e rivoluzioni. Figure quali quella di Giotto, di Raffaello, di Caravaggio, nonché le Avanguardie novecentesche, sono tutte analizzabili in tal senso.
Mi domando però una cosa. Se si decide di fotografare lo stato dell’arte, ritengo si debba testimoniare – per riportarmi alle premesse di questo scritto – quanto, anche magari agli occhi di molti discutibile, si fa propugnatore di qualità, magari innovative, e per questo ancora difficili da intravedere agli occhi dei più, ma pur sempre tali. Se invece si compie un’operazione che, oltre ad inserire nomi della cultura indiscutibilmente importanti e apprezzabili in altri ambiti, ma non in quello di cui la Biennale dovrebbe essere testimone, si pescano a casaccio“pseudo-artisti” che forse neppure alcuni premi di provincia, mossi da ben altri intendimenti, si possono fregiare di aver esposto, solo perché è giusto restituire l’arte agli artisti, temo si equivochi il concetto stesso della medesima. Quello a favore del quale il famigerato Professore si fregia di combattere.
Non discuto sul fatto di avere creato eventi collaterali in altre sedi (anche se credo questo vada a tradire lo spirito di una manifestazione, pur indubbiamente creando attenzione e clamore intorno ad essa). Discuto però, ripeto, la populistica formula “L’arte non è cosa nostra”, che certo pare più un’operazione pubblicitaria e di marketing, che non il tentativo sincero di fotografare uno stato di fatto. Altrimenti questo medesimo stato di fatto sarebbe davvero deprimente.
Sgarbi ha più volte dichiarato, nel corso della prolusione, di essere stato mosso dalla precisa volontà di sottrarre l’arte alla “oligarchia” di critici e gallerie che da anni propongono solo determinati nomi. Posso certamente essere d’accordo. Ma non posso condividere che irresponsabilmente, se pur giustificandolo abilmente con la propria dialettica, si amplifichi il concetto di arte sino ad abbracciare il puro dilettantismo. Questo ritengo sia un’operazione ancor più blasfema e distruttiva di quella di chi invoca un ritorno all’ordine. Mi riferisco nuovamente a Jean Clair e alle polemiche innescate dal suo saggio. Come affermò Trione, commentandolo, “forse, anche nell’ «inverno della cultura», ci sono significative sacche di resistenza.”
Corretto quindi sarebbe cercare, onestamente e con dovizia, di portare alla luce eventuali indicative testimonianze di quanto l’arte – rinnovandosi – sappia precorrere i tempi e raccontarli con maggior freschezza di altri linguaggi.
Ma mi pare di poter affermare che nella Sala dei Re vi fosse ben poco che potesse rappresentare questo stato di cose.
CRISTINA PALMIERI