Il mondo dell'arte, inutile girarci intorno, è fatto da autori. Ma quand'è che un autore può definirsi tale? Nel cinema questa è una questione particolarmente annosa, perché per molti autore è chi fa il classico 'cinema alto', quello che pone degli interrogativi allo spettatore e che fa riflettere in generale sull'esistenza (quindi tizi come Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Lars Von Trier e via dicendo), mentre per il resto delle persone è colui che ha un proprio marchio di fabbrica, uno stile visivo che lo fa riconoscere anche quando si dedica al cinema commerciale (e mi viene in mente gentaglia come Guillermo Del Toro, Christopher Nolan, Sam Raimi). Per me le cose non devono essere separate, perché c'è il cinema d'autore che pone le sue basi sulla riflessione che danno le stesse pellicola, così come, quando raggiunge dei buoni livelli, cinema d'autore è anche quella semplice pellicola d'intrattenimento che però mantiene inalterata l'ottica estetica del suo realizzatore. Tim Burton, uno dei miti della mia adolescenza, è senza dubbio autore su più livelli, perché è innegabile che molte sue pellicola abbiano portato delle riflessioni di immane bellezza - un Big fish molti registi se lo sognano ancora - oltre che un semplice livello estetico anche quando si è dato al blockbuster. Lui era quello che parlava dei diversi, degli outsider, di quelli che venivano esclusi dalla società perché troppo diversificati dai canoni impartiti dalla stessa... ma era anche quello che a forza di torcere su questi argomenti finiva per ripetersi ogni volta, tanto che nelle sue ultime produzioni sembrava aver leggermente perso la tramontana.
La pellicola parla delle vicissitudini di Margaret Keane, autrice di ritratti di orfanelli dai grandi occhi, e del raggiro perpetuato da suo marito, Walter Keane, che si appropriò del suo lavoro, formando un impero milionario...
L'ennesimo biopic è arrivato. Dopo American sniper di Clint Eastwood, Unbroken di Angelina Jolie, The imitation game di Morten Tyldum e La teoria del tutto di James Marsh, ci pensa anche Tim Burton, anni dopo il suo gradevolissimo Ed Wood, a unirsi a questa nuova moda di Hollywood. E questo suo nuovo progetto sembrava incuriosire molto proprio perché così lontano dalle sue corde, quelle medesime corde che me l'hanno fatto amare all'inizio della mia passione cinefila e detestare negli ultimi tempi. Il risultato? Molti hanno ritenuto il film come un qualcosa di estremamente mediocre e malfatto, altri come un nuovo capolavoro da annoverare a quelli passati del regista di Burbank. Io come al solito mi metto nel mezzo, senza innalzare ma nemmeno demolire questo film, scegliendo quella via estremamente comoda che però alle volte è proprio l'unica per valutare obiettivamente certe opere. Perché Big eyes non è per nulla un brutto film, anzi, mantiene una sua personalità a differenza della molta mediocrità di settore uscita di recente, ma non si può neppure dire che sia totalmente riuscito. Ciò che colpisce fin da subito è la componente attoriale, qui regalataci da una Amy Adams (io ancora mi sogno le scollature di American hustle) e da un Christoph Waltz (che dopo Inglorious basterds e Django unchained è più tarantinizzato che mai) in perfetta sintonia; la prima davvero brava a trasmettere il disagio di una donna che si vede consenzientemente derubata di tutto, il secondo forse un po' troppo gigione ma comunque di grande presenza scenica nel favorire quello che è il tipico umorismo burtoniano, vero collante con la passata produzione del regista. Ma è la storia che non regge sempre, in certi casi troppo ancorata a quelli che sono le leggi narrative di un prodotto come quello del film biografico - e la grandezza di un film come la biografia del peggior regista di sempre era quello di parlare del film dentro il film, andando anche al di là di quello che si voleva semplicemente raccontare - oltre a non saper sfruttare bene quello che potrebbe essere una lettura metatestuale del lavoro dei Keane. La vera rivoluzione che fece quella strana coppia fu proprio quella di portare l'arte non solo nelle mostre espositive a tema, ma nelle case della gente (la stessa gente che continuava a richiedere opere tutte uguali e simili fra loro... magari una critica ai blockbuster moderni?) con poster, depliant e altri generi di gadget. Il loro lavoro non era più arte, ma commercio, un po' come spesso succede al cinema nelle sue diverse sfaccettature - a tal proposito, magnifica la citazione di Andy Wahrol a inizio film. Che sia un qualcosa di giusto o sbagliato lo lascio decidere ad altri, a occhi più o meno grandi dei miei che magari possono scorgere la giusta verità in questa faccenda, ma resta il fatto che questa tematica è unicamente suggerita nel film e mai approfondita, lasciando quindi un vago senso di perdita per chi si aspettava maggiori sviluppi da quel versante. Il film quindi diventa una versione palesemente romanzata di una faccenda che potevamo scoprire solo con pochi click su Wikipedia, togliendo molta della visionarietà tipica di un Autore che ha segnato la storia del cinema moderno e le tematiche che dalla sua idea potevano svilupparsi. Ma per quanto sia didascalico e in certi tratti addirittura buonista (la scena dei testimoni di Geova, per quanto veritiera a livello biografico, è abbastanza snervante) rimane comunque una storia frizzante, anche se moderata, di una vita sui generis che inevitabilmente finisce per incuriosire, senza contare che non cerca mai di prendersi troppo sul serio come gli esempi già citati a inizio paragrafo. Si ride e un poco si riflette, anche se mai approfonditamente come si sarebbe realmente voluto, ma alla fine non rimane molto alto. Certo, poteva andare decisamente meglio con un autore come Tim Burton, ma visti quali sono stati i suoi ultimi passi falsi poteva addirittura andare peggio.
Né bello né brutto, alla fine. Personalmente trovo che, nonostante i numerosi e innegabili difetti, sia un film che è stato preso con troppa serietà da gran parte del pubblico. O come al solito, io sono ancora più ignorante del pubblico che Burton ha voluto ritrarre.Voto: ★★★