Bir Zamanlar Anadolu'da - Once Upon a Time in Anatolia

Creato il 01 febbraio 2012 da Robydick
2011, Nuri Bilge Ceylan.
Se è vero che ai festival si va per vincere, per parafrasare Michael Haneke, è altrettanto vero che ogni edizione Cannes, da qualunque angolazione la si guardi o qualunque idea di cinema uno possa avere, annovera sempre nel suo immenso campo di battaglia così tante vittorie di Pirro da rivaleggiare con le più nobili sconfitte. É inesplicabile, ma è così.
È successo proprio quest'anno a Once Upon a Time in Anatolia, di Nuri Bilge Ceylan (regista de Le tre scimmie, ve lo ricordate?) che pur accaparrandosi ex-aequo con i fratelli Dardenne il Gran Premio della Giuria, non solo non ha trovato un distributore per il nostro paese, ma non ha nemmeno potuto beneficiare della dovuta attenzione critica. Tutta colpa (forse) dei vari filmetti e filmacci che hanno ingorgato il palmarès con titoli roboanti e con altrettanto roboanti esibizioni di tecnica autoptica, dal pippone morettiano Habemus Papam all'ultra-frigido Drive, di cui si sono intessute lodi e festeggiati luculliani cerimoniali senza alcuna ragione particolare. Oppure colpa dell'italiano festivaliero, snob e radical-chic per eccellenza, che se una volta pasteggiava con Bergman e si coricava con Antonioni, oggi ha abbandonato i film turchi per sbrodolarsi a cucchiaiate di Tarantino e Almodóvar. Comunque la si voglia mettere, a farne le spese è stato il povero Ceylan, che s'è dovuto “accontentare” di un qualche trafiletto pubblicato su riviste accademiche o siti specializzati, perché di certo nessuno ha avuto né la voglia né la possibilità di andare a recuperarselo per capire che diamine di oggetto fosse. E così eccoci qui a parlare di una pellicola che nella migliore delle ipotesi sarà confinata al contenitore notturno Fuori Orario.
Dunque, di cosa tratta Once Upon a Time in Anatolia? Bella domanda, perché più che un film è un grande affresco di storie complementari che, partendo da uno spaccato di quotidianità (la ricerca di un cadavere), trascende l'impianto noir per diventare una complessa e struggente riflessione sull'umanità e sulle sue molteplici colpe.
Immaginate una notte senza stelle, completamente nera, illuminata soltanto dai fari di poche autovetture. Immaginate una campagna sterminata, tutta fatta di paglia, colline infinite ricoperte di vegetazione sporadica e ingiallita, un paesaggio dell'anima che, senza inizio né fine, si ripresenta sempre uguale a se stesso. Giallo dappertutto. Un mare di ocra, un oceano di fieno che si perde all'orizzonte. Ovunque tu guardi, in qualunque direzione corrano i tuoi occhi, c'è soltanto questo giallo metallico e immenso, che ti circonda, ti soffoca, ti riempie fino al midollo con la sua reiterata monotonia. E in tale nulla, in questa assenza, le storie di uomini comuni, un medico legale (Muhammet Uzuner), un procuratore (Taner Birsel) e alcuni poliziotti che scortano un assassino reo confesso sul luogo del delitto. Da qualche parte accanto a un albero, nella terra argillosa, tra gli arbusti di stoppia morente, c'è il corpo senza vita di un disgraziato, seppellito alla buona e lasciato in pasto ai cani. Dove sia stato inumato, l'assassino non lo ricorda con esattezza: era buio, lui era ubriaco, e nell'oscurità i particolari si confondono, le prospettive si fanno alterate e incerte, e allora non si è più sicuri di niente.
Le vetture attraversano la campagna, si arrampicano per le ondulate colline, si fermano sul ciglio di una strada che potrebbe essere quella giusta, ma che in realtà, per quanto i dettagli corrispondano quasi alla perfezione alla descrizione fornita dall'uomo, non è mai la via che si sta cercando. Mentre le operazioni proseguono, nel buio, tra pause, litigi e ripensamenti, ecco che i disperati protagonisti di questo poliziesco mancato cominciano a confrontarsi sulle rispettive paure, a discorrere dei traumi della propria vita, dei casi irrisolti, di tutto ciò che li ha resi tali nel corso degli anni. In una notte nerissima e solo all'apparenza tranquilla, storie di passioni mai sopite, drammi famigliari, ripicche e cattiverie, ma anche attimi di toccante pietà umana, baluginano nella generale cecità (reale e metaforica), spingendo gli astanti a guardare dentro di sé piuttosto che negli occhi del prossimo. Da una parte il procuratore, che non sa ancora darsi spiegazione della morte di una donna, moglie di un caro amico, deceduta senza alcuna ragione apparente, dall'altra il medico legale, che invece suppone che di motivazioni, quella stessa insospettabile donna, ne avrebbe avute anche più di una per compiere l'insano gesto. La medicina e la legge si incontrano e scontrano, la ragione e il sentimento si confondono all'ombra della giustizia (degli uomini) e della morale (di Dio), sullo sfondo di una steppa brulla e desolata, dove persino il silenzio fa male, quel silenzio atroce che riempie lo spazio tra i pensieri, che scava nel cuore e colma la memoria di cicatrici inenarrabili. E quando infine la luce del sole, timidamente, illumina la campagna, brillando sugli innocenti e sui colpevoli, consumando nella stessa lugubre bellezza assassini e redentori, vittime e carnefici, le più inconfessabili verità vengono a galla, bruciando in fondo all'anima, rivelando quanto fino a quel momento era stato inconsapevolmente occultato.
Ceylan è un maestro della forma, e se nel titolo omaggia Sergio Leone, nella sostanza sembra quasi rendere ossequio al cinema di Bruno Dumont, alla sua cosmogonia fatta di delicatezza e bestialità, di orrore ma anche di inaspettata salvezza. Alla fine delle sue due ore e mezza di proiezione, epiche e a suo modo (anti)eroiche, Once Upon a Time in Anatolia ci ricorda che il delitto, come la colpa e la sua remissione, sono parti integranti dell'essere umano, e che umanità ed efferatezza sono soltanto le facce della stessa medaglia, speculari e indissociabili. Dove finisce l'una e inizia l'altra, sia lo spettatore a stabilirlo. Sempre che ne abbia il coraggio.
Marco Marchetti

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