Birdman o (L'imprevedibile Virtù dell'Ignoranza)
Creato il 12 febbraio 2015 da Mattia Allegrucci
@Mattia_Alle
C'è un attore, Riggan, che vuole dimostrare di essere tale imbastendo uno spettacolo a Broadway, ma nella testa ha questa vocina (o vociona, che dir si voglia) che continua ad evidenziare quanto la sua vita dipenda dai grandi successi commerciali di un tempo. Riggan, nei lontani anni '90, indossava infatti il costume di Birdman, supereroe protagonista di una saga cinematografica commerciale della quale ancora oggi si porta dietro gli strascichi: il suo alter ego è ciò con cui ogni giorno deve scontrarsi in camerino mentre tutto il resto del mondo è fuori a ricordargli quanto sia inutile e superflua la sua esistenza e quanto poco abbia realmente combinato nel mondo. Satira splendente sulla situazione odierna dei cinefumetti, del cinema e degli attori, Birdman è un apparente unico piano sequenza che racconta la storia di questo attore frustrato che deve farsi riconoscere a livello artistico, discutendo con i fantasmi del suo passato, interiori ed esteriori. C'è tanta carne al fuoco nel nuovo film di Alejandro González Iñárritu, forse troppa; il regista vuole mettere in scena non solo un attore in cerca di apprezzamenti, ma un uomo fallito che in vita sua non ne ha combinata una giusta, che cerca di ripristinare i rapporti con sua figlia (Emma Stone in stato di grazia), che non riesce a voltare pagina anche se vorrebbe tanto farlo, ossessionato dai suoi colleghi che vengono apprezzati dalla critica (Edward Norton che, in paio di momenti, ruba la scena a Michael Keaton) e dal pubblico (tutte quelle celebrità a cui il film fa un chiaro e netto riferimento). Nonostante i plausi meritati e doverosi al cast tecnico e artistico, su tutti il direttore di fotografia Emmanuel Lubezki, c'è qualcosa che scricchiola e stride all'interno della trama, qualcosa che, per chi scrive, ha disturbato la fluidità del prodotto. Probabilmente l'eccessivo manierismo di Iñárritu che gli ha imposto un piano sequenza forse troppo presente (la Mdp è percepibile tanto quanto Keaton e Norton, e non so quanto questo possa essere un bene per ciò di cui si parla nel prodotto) e da una colonna sonora (la tanto decantata batteria di Antonio Sanchez) che rimbomba continuamente nella testa del protagonista, ma anche in quella dello spettatore. Scelte audaci, queste, che indubbiamente servono a fare discutere il pubblico, ma che allo stesso modo impongono a chi chiacchiera su queste cose di prendere una posizione netta su di esse, così come l'autore la prese quando decise di fare il film in questo modo, e l'idea di chi sta riflettendo su questo blog è che forse il regista abbia esagerato. Troppo manierismo per autocompiacimento, ma non solo: uno dei problemi del film è quello di aprire tanti discorsi sul cinema commerciale, sull'arte contemporanea, sulla critica e sugli attori lasciandoli però tutti in sospeso, incerti, incompleti. Ecco, di nuovo, Iñárritu che eccede nell'intraprendere diverse strade ma senza decidere quale delle tante percorrere fino alla fine, o semplicemente il discorso è talmente vecchio che ha perso la sua importanza e la sua credibilità. Attori/celebrità? Arte e commercio? L'implosione di Hollywood? Le persone che diventano i personaggi? Polanski, Cronenberg e anche Assays hanno, in un certo modo, raccontato già tutto negli ultimi anni, e Capitan America/Chris Evans ha ormai dimostrato che dai kolossal nascono anche grandi film con attori validi (dall'eroe a stelle e strisce a Snowpiercer). Certo, è anche vero che Robert Downey Jr. è solo la faccia che fa Iron Man e Sherlock Holmes senza sforzarsi troppo, ma se per analizzare un mondo si prendono solo le informazioni che fanno comodo per avvallare la propria tesi, il risultato traballa. E il film risulta semplicemente la storia di un attore fagocitato dalla società che pretende di voler combinare l'arte con la fama. Un battuta della compagna di Riggan, Laura, recita più o meno così: Se avessimo fatto un figlio probabilmente avremo cresciuto un serial killer, o Justin Bieber. Ecco, Riggan è Justin Bieber, ma con la pretesa di voler essere Michael Jackson; è attorno a questo che ruota tutto il magnifico e ben costruito lavoro di Iñárritu che, purtroppo, non incide come dovrebbe, ma che si lascia apprezzare e godere, com'è giusto.
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