BLACK TUSK – Pillars of Ash

Creato il 02 marzo 2016 da Cicciorusso

Condivido quanto scritto da Charles nella recensione di Purple. Del triumvirato di Savannah preferisco anch’io i più giovani e meno blasonati Black Tusk ai Baroness, che da sempre rincorrono i Mastodon un po’ come i Megadeth hanno fatto con i Metallica, e ai Kylesa, che sono (erano?) bravissimi ma non mi hanno mai appassionato per mere questioni di gusti. Di ben cinque anni successivo al precedente Set the Dial, Pillars of Ash è il quarto lp del trio, il primo dopo la scomparsa del bassista Jonathan Athon, morto in un incidente con la motocicletta un anno e mezzo fa. La band non solo si è ripresa del tutto ma ha tirato fuori quello che è forse il loro miglior lavoro di sempre insieme all’esordio Passage Through Purgatory, dalla forte impronta post-hardcore, elemento poi ridimensionatosi col tempo.

Al posto di Athon è arrivato Corey Barhorst, uscito dai Kylesa dopo Spiral Shadow, e, per utilizzare quella stucchevole frase fatta che in molti casi è tuttavia vera, l’arrivo di un nuovo membro ha cambiato qualcosina negli equilibri di quell’eclettica e fangosa miscela che il gruppo ha battezzato “swamp metal”. Si è inserita, ad esempio, una venatura wave sottile ma percettibile (Bleed on your knees). Nel suo complesso, però, Pillars of Ash è forse l’album più diretto e aggressivo mai inciso dai Black Tusk. Beyond the divide, dalle vaghe sfumature melvinsiane, e Desolation in endless times sono bordate ritmatissime e spezzacollo che farebbero sbattere il piede anche agli scheletri della cripta dei cappuccini.

La componente metallara entombediana non si era mai saldata meglio a quella punk-hardcore, che riemerge prepotente nelle conclusive Punkout e Leveling. Si concedono le giuste parentesi di cazzeggio ma vanno dritti al sodo e non cercano più di apparire intelligenti e sperimentali, anche a costo di mettere a nudo i loro limiti creativi, che riemergono peraltro proprio nei frangenti più canonicamente sludge, con stacchetti strasentiti e faciloni. Gli americani avevano iniziato ad abbandonare la scrittura imprevedibile ma un po’ confusionaria degli esordi, derivante dal portarsi dietro un bagaglio di influenze così variegato, già con Set the Dial, nel quale l’evoluzione verso un sound più asciutto era però stata controbilanciata da un’ispirazione minore e pezzi più ripetitivi. Viene quasi da pensare che i Black Tusk diventerebbero una ficata vera se si dessero al death’n’roll pestone. Ad ogni modo, uno dei dischi usciti in questo primo scorcio del 2016 che sto ascoltando più spesso insieme a Rituals dei Rotting Christ. (Ciccio Russo)