di Michael Mann (Usa, 2015)
con Chris Hemsworth, Tang Wei, Leehom Wang, Viola Davis, William Maphoter
durata: 135 minuti
★★★★★
Si dice che se una farfalla sbatte le ali in Brasile, può provocare un uragano in Texas. Allo stesso modo, in Blackhat, battendo qualche tasto di un computer si può far esplodere un reattore nucleare in Cina e far lievitare il prezzo della soia, facendo impazzire le Borse di tutto il mondo. Tutto per colpa degli hacker, i pirati del terzo millennio, che rappresentano la nostra nemesi e le nostre fobìe, ovvero la vulnerabilità dell'essere umano nei confronti di quella tecnologia che, paradossalmente, ha creato proprio per sentirsi più 'sicuro'...
Signori, Michael Mann è tornato. E stavolta è davvero lui, ben lontano (per fortuna) dallo scialbo Nemico Pubblico del 2009, il suo ultimo film, girato più per fare contento Johnny Depp che per effettiva empatia con il personaggio descritto. Invece Blackhat è un film 'manniano' al 110%, che al solito manderà in estasi i suoi ammiratori e, probabilmente, lascerà indifferenti tutti coloro che non sono disposti a lasciarsi trasportare dalla forza delle immagini in un viaggio dolente e romantico all'interno della fragilità dell'uomo, qui rappresentato in tutta la sua debolezza di 'animale sociale moderno', incapace di distinguere il virtuale dal reale, imprigionato nella sua solitudine.
In Blackhat la solitudine è quella 'coatta' di Nick Hathaway (Chris Hemsworth), hacker in disgrazia finito in carcere e 'richiamato' in servizio nientemeno che dai servizi segreti statunitensi per dare la caccia a un cyber-criminale senza scrupoli, deciso a distruggere mezzo mondo per ingrassare il proprio conto in banca... gli daranno una mano un suo ex-compagno di università, ora stratega dell'esercito cinese e la di lui sorella, con cui Nick intreccerà una tenera e difficile relazione.
Come in tutti i film di Michael Mann, la storia (banale e poco convincente, nessun problema ad ammetterlo) è solo il contenitore utile al regista per imbastire una pellicola dolente e malinconica, incredibilmente affascinante, fatta di atmosfere, sguardi, abbandoni, frasi smozzicate e parole sussurrate... personalmente, sostengo da sempre che la grandezza di un cineasta sta nel rendere clamorosamente belle le situazioni 'normali', e Mann in questo è ineguagliabile: a lui basta un guizzo, un gesto impercettibile, un dettaglio, per strozzarci la gola e farci uscire una lacrima: in Collateral erano due coyote che attraversavano la strada, in Miami Vice una corsa in motoscafo, in Blackhat ci sono ombre danzanti e luci soffuse a rendere assurdamente magica una trama che, in apparenza, più 'fredda' di così non potrebbe essere.
I film di Mann, come dico sempre, andrebbero visti tutti di notte: perchè è lì che questo grande vecchio, sottovalutato cantore di sparatorie, riesce a inebriarci e prenderci per mano... Blackhat dura quasi due ore e mezza ma vorresti che non finisse mai, con la sua malinconia di fondo, l'eleganza inusitata del digitale (che il 73enne Mann, ricordiamocelo, è stato uno dei primi a 'sdoganare' senza tanti pregiudizi ideologici), la disarmante bellezza delle carrellate a tutto schermo. E poi, ovviamente, le celeberrime scene d'azione che tolgono il fiato: gli ultimi venti minuti del film, con cacciatore e preda che si inseguono e si danno battaglia nel bel mezzo di una celebrazione religiosa, tra le ali di una folla simbolicamente indifferente a tutto (assurde le critiche di chi ne ha contestato la plausibilità!), si candidano a diventare la sequenza più bella dell'intera stagione cinematografica: vedere per credere!