Blackhat è un cyber-thriller, ma non di quelli che pompano il ritmo e “si vendono” alla spettacolarità da (s)fracasso e da strapazzo. Il tema scelto è dei più attuali, scottanti, scivolosi, interessanti. Un cyber-attacco è la nuova Pearl Harbor o un nuovo 11 settembre 2001. Il crimine (s)scorre nelle vene dei computer, nelle sinapsi delle banche, tra linee di codice che generano esplosioni e hacker che paiono fantasmi inafferrabili. Blackhat ha tutte le carte in regola per essere uno di quei thrilleroni che tuonano, entusiasmano, liberano. E invece no, Blackhat dilata i tempi, si fa attendere, si gongola intimamente nelle sue ellissi, silenzi, vuoti. Là dove potrebbe deflagrare, trattiene il respiro, riflette su di sé, punta sulla componente umana e non cinematografica dei suoi personaggi. È così che Mann si allunga e dilunga nel mostrarci i sonni di Nick Hathaway (Chris Hemsworth) e Chen Lien (Wei Tang), le riflessioni su come stanare il criminale di turno e altre “piccole inutilità” narrative. Gli inseguimenti e le sparatorie non sfrecciano né abbondano, ma sanno farsi sentire solo e soltanto quando devono, quando è strettamente necessario ai fini di un intreccio che si dipana intrigante e limpido in un film cupo e crepuscolare, iper-metropolitano, illuminato al neon, come osservato continuamente da dietro gli occhiali da sole del protagonista.
Blackhat è quindi un thriller contro-corrente, per pochi, che sa di scontentare molti spettatori. Ma di questo Mann se ne frega. La Legendary Pictures c’ha perso milioni di dollari: il film le è costato 70 milioni di dollari e ne ha re-incassati solo 7 in Usa. Il flop poi è stato internazionale. Da questo punto di vista, Blackhat ci interroga sul valore intrinseco di un’opera (d’arte), sciolto dal furore al botteghino, su quanto qualcosa di pregio possa fare o faccia (comunque) il proprio corso indipendente dai biglietti staccati.
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