Blackhat - La Recensione

Creato il 06 marzo 2015 da Giordano Caputo
Ciò che rende Michael Mann un maestro - oltre alla nota magnificenza registica - è la sua capacità, non comune a tutti, di vigilare attento sui mutamenti del proprio mestiere. Negli anni il cinema con cui si è introdotto è cambiato, si è alterato, e anziché rimanere testardo, ancorato al passato, lui ha deciso di seguirlo e di non perderlo di vista, tallonandolo, se vogliamo, o tentando addirittura di precederlo.
Ma come è cambiato il cinema così ha fatto anche il resto, la società in cui viviamo, la sua gestione delle risorse, e il cyber-thriller "Blackhat" ce lo mostra attentamente attraverso un terrorismo e degli hacker informatici abili a rendersi invisibili nelle loro stanze remote e, nel frattempo, a causare disastri ambientali ed economici in qualsiasi parte del mondo. Essere degli 007 non serve più a nulla se il nemico da combattere ha come arma una tastiera e uno schermo e può attaccare tranquillo e sereno senza mai dover uscire allo scoperto. E allora, va da sé, che ogni regola è costretta a modificarsi, a piegarsi alle nuove leggi e a sottostare agli accadimenti, scomodi, del progresso, lo stesso che porta il carcerato Nicholas Hathaway di Chris Hemsworth a dettare condizioni all'FBI e a chiedere l'annullamento della sua pena in cambio del supporto tecnologico, indispensabile, che lo ha portato dietro le sbarre, ma di cui ora l'America e la Cina - e presto il mondo - hanno bisogno. Lui è l'eroe che non ti aspetti, per nulla addestrato a combattere sul campo, eppure preparatissimo a tenere mente e corpo lucidi e saldi, evitando che la reclusione e il tempo cambino suo valore e proporzioni. Praticamente la nemesi perfetta del nuovo nemico, il bene 2.0 da utilizzare contro un male che tuttavia potrebbe ancora essere superiore, poiché proprio dai vecchi codici di Hathaway è riuscito a comporre il virus (blackhat) con cui sta mettendo in ginocchio i suoi avversari.
Torna, dunque, il Mann di "Miami Vice", e alla lontana persino di "Collateral", entrambe pellicole in cui la tensione veniva trascinata alle stelle nonostante l'azione fosse spostata in secondo piano e dosata con perizia in spaccati ben precisi della trama. Si serve dei suoi muscoli "Blackhat", e non tramite i corpi dei suoi protagonisti, li usa per mantenere saldo il passo e per far sentire stabile la sua massa a terra durante il processo di elaborazione, quello lungo il quale non perde occasione per citare l'Undici Settembre e per indicare quanto l'America porti ancora delle fratture interne che inevitabilmente spaccano pareri e ordini di chi, pur collaborando, nei momenti decisivi deve fare i conti con ripercussioni diplomatiche e mantenimento della sicurezza.
Un dilemma, questo, che secondo "Blackhat" è ormai più vacuo del previsto e su cui premunirsi pare più un'illusione personale che altro, e non è un caso perciò se la chiusura della pellicola non tenti assolutamente di restituire quella sensazione di ordine che teoricamente stava rincorrendo, confermando, probabilmente, quel pensiero di difesa sfuggevole appartenente in senso stretto all'oggi e (molto di più) al domani. 
Senza né eccellere e né spendersi troppo, mette a segno un altro colpo quindi Mann, dimostrando una visione estesa, sempre a fuoco e realizzando un thriller ad alta tensione, controcorrente, capitanato da un personaggio apparentemente non-catalizzatore, ma di cui attraverso varie sfaccettature riusciamo a stilare un profilo piuttosto chiaro e apprezzabile. Perché Hathaway, seppur sporco nella sua fedina, è colui che ruba solo a chi ruba a sua volta, colui che protegge sé stesso come gli altri, colui che sapere libero, in giro nel mondo, ci da una serenità maggiore che saperlo imprigionato e ai margini.
Colui che, sinteticamente, in questo mondo può sopravvivere.
Trailer:

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