Blackhat, un film di Michael Mann. Sceneggiatura di Michael Mann e Morgan Davis Foehl. Con Chris Hemsworth, Viola Davis, John Ortiz, William Mapother, Leehom Wang, Wei Tang. Al cinema da giovedì 12 marzo.
In America il pubblico l’ha disertato, i critici istituzionali l’hanno distrutto. Ma il nuovo film di Michael Mann è diventato oggetto di devozione di una frangia cinéphile, un culto subito rimbalzato anche da noi. Blackhat è un cyber-action goffo e improbabile che Mann sa riscattare e sublimare in una fantasmagoria di immagini e visioni. Voto 7 e mezzo
Il flop dell’anno. Il film di culto dell’anno. Scegliete voi da che parte stare. Io sto dalla seconda, prendendo atto della prima, ovverossia che il film dell’illustre Michael Mann – il suo primo dai tempi del poco riuscito (per colpa di Johnny Depp soprattutto) Public Enemies e dunque sono anni e anni – ha incassato sul mercato nord americano la miseria di 7.889.395 dollari a fronte delle decine e decine di milionate spese. Rifiutato, incomprensibilmente, dal pubblico e se è per questo pure dalla maggioranza dei critici con un rovinoso 34% su Rotten Tomatoes. Naturalmente di rimbalzo e reazione e ripicca, come spesso capita con i film disastrosi al box office, s’è generata subito la devozione più o meno elitaria e cinefila, quella specie di sindrome di protezione cuccioli abbandonati che stavolta ha colto frange consistenti della web-critica, soprattutto nella sua incarnazione nerd. Così, subito dopo le anteprime stampa italiane, sui social è stato tutto un cinguettare al capolavoro maudit e malcompreso, un prosternarsi estatici davanti a Michael Mann ancora una volta esploratore, lui che è stato tra i primi a intuire le potenzialità del digitale, di nuove frontiere techno-espressive. Naturalmente, come spesso dalle nostre parti, trattasi di fenomeno di riporto e scopiazzatura. Il culto per Blackhat è nato sulle webzine Usa e adesso viene adottato e imitato da noi nella periferia dell’impero, anche se gli adepti si ritengono appartenenti alla jeune critique più oltranzista e anticonformista e meno allineata, mentre i nostri recensori più istituzionali di sicuro deploreranno e bocceranno (le stroncature son state anticipate al press screening a Milano da sghignazzi e pernacchi in sala). Al netto di questi opposti estremismi di adorazione e cipiglioso rigetto, com’è Blackhat? Un oggetto anfibio e doppio, composto di due film opposti, sovrapposti e spesso confusi e inestricabili, uno mediocre, uno sublime. Il guaio, il lato no della faccenda, è la storiaccia che Mann, su sceneggiatura non ineccepibile scritta con Morgan Davis Foehl, pretende di propinarci, un avanzo cattivo e andato male degli action around-the-world con caccia a una centrale di cattivissimi installatasi da una qualche parte del globo, insomma Bourne come matrice, a seguire il James Bond 2.0 di Daniel Craig e i più recenti Mission: Impossible. Sapete, quelle folli corse e inseguimenti tra location una più bella e anche esotica dell’altra, da Mosca a Singapore, da Marrakech a Barcellona a Istanbul con gran scialo di vedute panoramiche, per disinnescare un pericolo che tutti minaccia: Blackhat è questa roba lì, con the sexiest man alive secondo People, il biondaccione australiano Chris Hemsworth, a fare da action hero. Con una significativa variazione rispetto al modello però. Che stavolta siamo in un cyber-avventuroso dove il protagonista è un hacker, insomma uno che lavora di cervello e tastiere e non solo di mena-mena e spara-spara, cui tocca di fermare un colossale cyber-intrigo che, se andasse in porto, causerebbe disastri spaventosi all’ecosistema e vittime a decine, anzi centinaia di migliaia, oltre che un illecito arricchimento del super villain. Il quale, tanto per lasciar intender di cosa sia capace, fa esplodere con una hackerata nientedimeno che una centrale nucleare cinese con tanto di possibili effetti alla Chernobyl-Fukushima. La seconda mossa dell’o’ malamente è di far crollare in borsa i future della soia. Si allarmano i servizi segreti americani, e pure quelli cinesi. Che, per far fronte alla comune minaccia, stabiliscono un’alleanza e si muovono uniti contro il misterioso sabotatore digital-globale. Non senza aver ingaggiato, tirandolo fuori dal carcere di massima sicurezza dov’era confinato, il più bravo di tutti gli hacker, Nicholas Hathaway, il carnoso Hemsworth per l’appunto. Ora, sono parecchie le cose che malfunzionano. La sceneggiatura è piena di cliché e déjà-vu, con una progressione narrativa innestata col pilota automatico e prevedibile a occhi chiusi. A peggiorare il tutto è la scrittura, sono i dialoghi, son goffaggini come “quando saremo fuori dal tunnel” che non si sentivano da qualche decade nel cinema serio. Poi, scusate, vi par credibile un poderoso beefcake, anche se attore capace di finezze (come ha dimostrato in Rush) quale Chris Hemsworth nella parte di un hacker che ti immagini occhialuto e nerdissimo e pallidissimo? Non bastasse, gli autori gli mettono in mano quand’è in cella, se ho intravisto bene, Baudrillard e nientedimeno che Sorvegliare e punire di Michel Foucaul. Blackhat è di quei film da vedere azzerando l’audio, mettendosi i tappi nelle orecchie, il modo migliore per riuscire a percepire il grande film nascosto dietro e sotto le sue ovvietà, quella sinfonia visuale orchestrata ancora una volta magnificamente da Michael Mann. Il quale si conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di essere davvero, come ha scritto un critico americano di cui purtroppo non ricordo il nome, uno dei massimi inventori di immagini oggi in circolazione. La sua smaltata lezione anni Ottanta, le sue fantasmagorie post-moderne da Miami Vice in avanti, continuano a produrre incanti. Mann, signori, gira come pochi al mondo, e che importa se racconta cazzate come in questo caso. Le racconta con un senso del bello e dello spettacolare così elevato da tramortirci. Con un senso perfetto del ritmo interno del film, alternando vuoti e pieni, silenzi e fragori, rallentamenti e accelerazioni da signore della regia, e della narrazione. Osservare per credere una scena drammaturgicamente assai qualunque e vacua come la prima all’aeroporto, una lunghissima carrellata perfettamente orizzontale, e parallela al muoversi degli attori, che riprende e rilascia corpi e figure e li perde e li ritrova che neanche l’Anghelopoulos più estremo e audace. Ma è nella parte asiatica, quando si approda a Hong Kong, che Mann riesce a folgorarci, con quelle mirabolanti riprese notturne a tutto schermo, e i grattacieli adunchi e minacciosi iluminati dentro, e il mare a rifletterli. Con quel nitore che gli conosciamo fin dai tempi di Miami Vice e mantenuto intatto nel tempo come un company brand. E l’inseguimento, sempre a Miami, tra buoni e cattivi. E l’ultimo quarto d’ora, sublime, con cacciatori e prede, e prede-cacciatori, che si inseguono e si cercano tra la folla di una festa etno-religiosa e forse di celebrazione nazionalistica (quel monumento pompier!) in Indonesia, tra musiche e balli ipnotici che ricordano quelli del sinistro musical messo in scena dagli assassini di The Act of Killing di Joshua Oppenheimer. Luci e oscurità e ombre danzanti, un pezzo di cinema potente, lugubre e ipnotico. Cosa volete che ci importi delle noiose spieghe digital-hackeristiche e di un plot da sbadigli quando dietro alla macchina da presa c’è un occhio capace di queste visioni?
Nella parte dell’eroina si rivede Wei Tang, già protagonista di Lust, Caution (Lussuria – seduzione e tradimento), lontano e non così meritato Leone d’oro a Venezia di Ang Lee. Che la Cina in questo film, come in molte altre recenti grosse produzioni americane, sia così presente – nel cast, nelle location, nella narrazione – nasce ovviamente dalla necessità di conquistare quell’immenso mercato, ormai avviato a diventare il secondo per numeri e incassi dopo quello Usa/Canada.