Ovviamente e' facile oggi fare ironie sulla nuova ''super power'' (super potenza) senza ''power'' e sullo sviluppo caotico e disordinato dei giganti asiatici.
Non nego che ''la madre di tutti i blackout'' non abbia portato gravi disagi ai cittadini, pendolari, malati negli ospedali e perfino i poveri minatori di carbone del Bengala bloccati nel sottosuolo e poi tirati fuori soltanto dopo ore.
Ma sono davvero convinta che un guasto del genere, possibilissimo anche nei Paesi avanzati (ricordiamoci cosa e' successo in Giappone con le centrali piu' ''sicure'' del mondo) avrebbe sicuramente creato un caos inimmaginabile con conseguenze tragiche.
Lo ricordo, i blackout fanno parte della vita quotidiana in India, in Pakistan (13 o 14 ore al giorno a volte) , Nepal e Bangladesh. Ce ne sono stati anche di piu' lunghi. Mi ricordo in periferia di Delhi di essere stata tre giorni senza corrente. Per inciso, la Borsa di Mumbai ieri ha perfino chiuso in rialzo.
Miracolosamente (o forse e' normale?) anche i computer e i call center di Gurgaon hanno retto. Dall'outsourcing dipendono le banche della City londinese. Si immagini che succede se vanno in tilt. L'era digitale dipende sempre dalla vecchia elettricita'.
Invece di dare addosso all'India, invece bisognerebbe cominciare a riflettere sulla nostra interdipendenza tecnologica e sulle cosiddette ''criticita'''. Un guasto in India, polo informatico mondiale, non e' solo un problema d'immagine per New Delhi, ma mette in gioco la sostenibilita' del nostro modo di vivere.
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