THE BLING RING (Usa/Uk/Francia/Germania/Giappone 2013)
Una volta Sofia Coppola faceva film carini. Romantici, delicati, di quelli da farsi venire il groppo in gola (The Virgin Suicides) o le pupille a forma di cuore (Lost in Translation). Poi qualcosa in lei è cambiato e, dopo l’interlocutorio Marie Antoinette, si è messa a provocare, a indagare, a riflettere, a guardare le cose con occhio critico, intellettuale. Ed è venuta fuori quella porcata di Somewhere. Seguita, tre anni dopo, cioè oggi, da Bling Ring, tratto da una storia vera.
La buona notizia è che, a differenza del suo predecessore, questo film non è una martellata sulle palle. Si fa guardare, ha un buon ritmo, è (relativamente) divertente. Tutto ciò nonostante il fatto che la vicenda narrata sia esile esile, quasi impalpabile, e che ogni cosa rimanga a un livello volutamente molto superficiale, per quanto riguarda sia i dialoghi sia l’analisi dei fatti raccontati. L’impressione è che la regista (e sceneggiatrice) abbia voluto mettersi al livello dei protagonisti della sua pellicola, facendo il film che forse avrebbero fatto loro: non c’è denuncia sociale, non c’è moralismo, non c’è alcun sentimento di condanna nei confronti di questo gruppetto di ragazzini che, qualche anno fa, decise di compiere ripetute irruzioni nelle ville incustodite dei vip di Los Angeles, sgraffignando vestiti, scarpe e gioielli per un totale di 3 milioni di dollari. Tutto è narrato con una certa noncuranza (per non dire condiscendenza), tanto stilistica quanto narrativa: hanno rubato, ricettato, ingannato e mentito? E va be’, sono ragazzi, che ci vogliamo fare. Anzi, non stiamo a impegnarci troppo per questo film, che tanto non ne vale la pena: facciamoli vedere mentre entrano per venti volte in case tutte uguali, lasciamo che dicano sempre le stesse cose prive di alcun contenuto, poi facciamo vedere che li arrestano e via, pronti per la proiezione. Persino le musiche, di solito tanto care a Sofia, sono assolutamente mimetiche alla vicenda raccontata. E quindi brutte, orrende, schiave di quell’hip hop commerciale che da anni domina le classifiche. Interrotto però, tra un furtarello e l’altro, da un brano ben riconoscibile di uno dei gruppi più geniali della storia della musica, i tedeschi Can. E allora lì ti svegli, e ti ricordi, se mai t’era passato di mente, che questo film è tutta una bufala, una presa per il culo (come giustificare, altrimenti, la presenza dell’inutle Emma Watson, l’ex fidanzatina di Harry Potter?), un esercizio di stile tanto intellettuale quanto meno dimostra di esserlo. Ed è proprio la mancanza di approfondimento psicologico, di denuncia sociale, di moralismo, a rendere ancora più espliciti questi stessi fattori: lo sguardo di Sofia Coppola è lo sguardo rassegnato di una madre ormai priva di speranza per i suoi figli, di un professore che sa quanto inutili saranno le sue parole, di un assistente sociale pronto a dire “avanti il prossimo”. Bling Ring è sciatto, i suoi personaggi sono brutti, la sua morale non esiste: e come poteva essere altrimenti? Roba da farti rimpiangere la gioventù perduta di Gus Van Sant, che almeno aveva il coraggio di essere disperata e i cui modelli non erano certo Paris Hilton e Lindsay Lohan. Ma ora sono io che sto diventando moralista.
Alberto Gallo