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BloGlobal a Ferrara: Il ritorno delle frontiere, l’Europa di fronte alla sfida dell’immigrazione

Creato il 02 ottobre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Redazione di BloGlobal

BloGlobal a Ferrara: Il ritorno delle frontiere, l’Europa di fronte alla sfida dell’immigrazione

L’incontro a Palazzo Massari 

Il tema dell’immigrazione ha occupato nella scorsa primavera un posto di rilievo nel dibattito politico e nelle società civili dei Paesi europei come non accadeva dai tempi delle guerre jugoslave e della crisi economica albanese degli anni Novanta. Nonostante il lancio negli ultimi anni di partenariati economici che investono, inevitabilmente, anche modelli di confronto ed accoglienza delle diversità, ancora una volta l’Europa intera si è trovata impreparata di fronte alle sfide dell’integrazione poste dai flussi migratori delle popolazioni coinvolte nella cosiddetta “Primavera araba”. Ciò, non di meno, è il riflesso non solo di una mancanza di coordinamento dei Paesi europei di fronte ad un problema contingente, quanto anche di un’incapacità di trovare una risposta effettivamente comune ai problemi che scaturiscono sia dal processo di integrazione, sia, allo stesso tempo, di allargamento e di proiezione esterna dell’Unione Europea. L’Europa in crisi anche dal punto di vista socio-culturale – e non solo economico – è l’idea di fondo dell’incontro che si è svolto ieri, 1 ottobre, a Palazzo Massari nell’ambito del festival di Internazionale a Ferrara e al quale sono intervenuti Michael Braun (giornalista di “Tageszeitung”), Eric Jozsef (corrispondente dall’Italia per “Liberation”, che abbiamo avuto l’onore di intervistare personalmente), Dario Menor Torres (giornalista del quotidiano spagnolo “La Razon”), Gabriela Preda (Foreign Policy Romania) e Lucio Battistotti (Direttore della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea).

Partendo da un commento sul modo in cui i propri Paesi di provenienza stanno affrontando il problema dell’immigrazione dalla sponda settentrionale dell’Africa – un atteggiamento più netto e deciso da parte di Francia e Germania che, sulla base del principio di salvaguardia della propria sicurezza nazionale, hanno preferito demandare la questione ai Paesi direttamente coinvolti (nella fattispecie all’Italia); una posizione più propositiva della Spagna, che ha agito non solo dal punto di vista del controllo delle navi dal Marocco verso il proprio Paese, ma che sta lavorando anche sul piano diplomatico ed economico per far fronte alle richieste sociali dei cittadini nordafricani – , si è giunti ad una conclusione condivisa da oratori e platea: quanto è avvenuto e sta avvenendo nelle acque del mare nostrum e nei palazzi delle Istituzioni comunitarie, non rappresenta altroche un ulteriore elemento dell’attuale crisi dell’Unione Europea o, dal nostromodo di vedere, anche del concetto stesso di Europa unita. Non a caso il fatto che il Trattato di Lisbona, che dovrebbe rappresentare l’Europa del XXI secolo, continua a non contemplare la normativa sull’immigrazione ma, anzi, lascia ai singoli Stati membri la facoltà di agire su questo piano e demanda agli Accordi di Schengen (di cui, peraltro, non fanno parte tutti i Paesi dell’UE) la regolamentazione delle condizioni per l’applicazione della libera circolazione dei cittadini europei, è la prova, più che un sintomo, di un’incapacità reale di adottare politiche comuni che esulino dal mero ambito economico-commerciale.

Tra l’altro, proprio l’esistenza di tali accordi dimostra che gli aspetti dell’immigrazione non si esplicano solo sul piano della dimensione esterna – e, dunque, con riferimento ai flussi provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa –, ma investe anche il piano interno dello stesso spazio europeo: ad esempio, l’ennesima bocciatura di Romania e Bulgaria per l’ingresso nell’area Schengen a causa del veto posto dai governi olandese e finlandese, fa ancora una volta emergere le difficoltà di un’integrazione effettiva e unanimamente condivisa e, semmai, alimenta la percezione dell’esistenza di Paesi europei che, benché strategici per la salvaguardia di molti interessi (in primo luogo quelli relativi alla sicurezza, sia in termini di approvvigionamento energetico sia in termini di contenimento dell’influenza russa e di gestione delle aree di crisi caucasiche), sono integrati nell’UE solo formalmente. D’altra parte, la diffusione e, in taluni casi, l’affermazione di movimenti populisti all’interno delle colazioni di governo di larga parte degli Stati membri – e che peraltro cercano di aggregare il proprio elettorato attraverso un uso strumentale del tema dell’immigrazione–, non aiuta certamente a facilitare un clima di coesione sociale. Al contrario, come più volte è emerso nel corso del dibattito, l’Europa stessa dovrebbe ripensare il proprio approccio alla diversità e stimolare la realizzazione di quel concetto di “solidarietà” che durante gli anni della Commissione Delors, e ancor più nel corso degli anni Novanta, avevano animato il dibattito comunitario.

Parallelamente a questi fattori che sembrano agire verso una disgregazione, nei palazzi delle Istituzioni si sta lavorando per trovare modelli nuovi per affrontare le sfide di una nuova integrazione: il Commissario all’Immigrazione, la svedese Cecilia Malmström, ha lanciato l’idea di una creazione di un sistema di polizia comune alle frontiere che garantisca un trattamento di sostanziale uguaglianza nelle quote di ingresso e di gestione dei flussi migratori; anche il Presidente della Commissione Barroso, già nel corso delle “Giornate di studio del Partito Popolare Europeo” svoltesi a Palermo lo scorso maggio, ha espresso la volontà, tra le altre proposte, di dar vita a dei nuovi modelli di “partenariato rinforzati”.

È pur vero, tuttavia, che la complessità di un’Unione Europea a 27 Stati membri, ciascuno dei quali con identità storiche-istituzionali-culturali ben definite e con caratteristiche economiche altrettanto delineate, rende sempre più difficile l’adozione di politiche realmente condivise e il raggiungimento degli obiettivi in tempi uguali per tutti. Ancora una volta, dunque, ci sembra che il modello dell’“Europa a più velocità” sia quello effettivamente auspicabile per il mantenimento e il funzionamento delle strutture sovranazionali e che questo costituisca il passo avanzato del concetto di “unione nella diversità”. Non solo “diversi ma uniti” insomma, ma anche “uniti e diversi”. 

 


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