L'accoglienza mediterranea
È risaputo: gli abitanti del sud Italia sono tra i più calorosi d’Europa. Per non offendere nessuno, tralasciamo il fatto che accanto a questo pregio troviamo diversi difetti quali l’invadenza e la propensione a un’espansività molesta - ops! - e focalizziamo invece l’attenzione sull’accoglienza, vero e proprio tratto distintivo delle popolazioni mediterranee.Andando indietro nel tempo, quando la popolazione era costituita in maggior parte da contadini, l’accoglienza assumeva una valenza ancora più significativa: accogliere nel migliore dei modi un viandante o un visitatore era un dovere morale e anche una forma di rispetto che si rifletteva su se stessi, sulla propria famiglia e sulla propria comunità.Cosa potevano offrire poveri contadini che si spezzavano la schiena nei campi tutto il giorno e mangiavano purè di fave e cicorie? Fichi secchi con le mandorle e un goccio di rosolio. Non so se voi che state leggendo abbiate mai assaggiato i fichi secchi ripieni di mandorle, ma io, da brava pugliese, vi assicuro che sono una bontà.All’epoca delle vicende di TREGUA, quindi negli anni Quaranta ma anche nei decenni precedenti e successivi, i fichi secchi erano considerati una vera leccornia. Per i bambini erano un sogno - altro che cioccolato Kinder! - e pure per gli adulti. Il rosolio, bevanda alcolica di facile preparazione, era dispensato con parsimonia durante la vita familiare, mentre veniva offerto in abbondanza a visitatori, anche sconosciuti. E così si dice: chi ha poco sparte quel poco e lo fa con il cuore.Come si prepara il rosolio di alloro?
È risaputo che le donne hanno sempre avuto la capacità di arrangiarsi con poco per allietare la tavola. Vediamo come se la cavava Elisa, la protagonista di TREGUA.
Estratto dal romanzo:
A casa nostra ognuno aveva il proprio posto: mio padre a capotavola e io e mio fratello ai lati del tavolo. Preparavo una grande portata unica e mangiavamo tutti dallo stesso piatto. Nessuno di noi cercava di fare il furbo: sapevamo benissimo che a papà spettava mangiare di più, poi toccava a mio fratello e infine quel che restava era per me.Mio fratello aveva rinunciato alla paga per farsi dare tre patate. Non erano enormi ma ero riuscita a cucinare un brodo molto allungato. Almeno era una minestra calda e potevamo mangiare una patata lessa a testa, il che per noi era una bontà. La mia era la più piccola naturalmente. Certe volte, quando non c’era altro, mangiavamo l’acquaséle, ossia pane raffermo bagnato in una ciotola contenente acqua, origano, sale e olio, se c’era. Ad Antonio non piaceva granché e, mangiandolo, mi prendeva in giro dicendo che ero così fissata per la pulizia da lavare pure il pane.Al termine della cena mostrai con orgoglio un dolce che avevo preparato. Forse dolce non era la parola appropriata, dato che non poteva essere paragonato alla leccornia di fichi secchi con le mandorle, ma in quel momento si trattava di una piacevole aggiunta alla nostra dieta: avevo cosparso del granoturco che tenevo nella dispensa - un secchio calato nel pozzo sotto la cucina - con lo zucchero comprato quel giorno. Era uno zucchero diverso dal solito, estremamente duro - tanto che lo avevo ridotto in polvere con il pestello - e dal colorito rosso-arancione, a ogni modo dolciastro.Pensai che mio padre vi avrebbe gradito dappresso un po’ di rosolio, ma non ne avevamo.Pure il vino scarseggiava ed era un po’ acidulo, di pessima annata: mio padre metteva una foglia di sedano sulla bocca dell’orciuolo e sorseggiava il vino così filtrato. Anche Antonio lo faceva alle volte, ma si era deciso di conservare il vino per la domenica, per gli ospiti o per ricorrenze particolari che, negli ultimi tempi, non c’erano.TramaPuglia, gennaio 1943.
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