"Blood Story" di Matt Reeves

Creato il 02 ottobre 2011 da Luca Ottocento

Presentato nel 2010 al Festival Internazionale del Film di Roma, Blood Story è senz'altro una conferma per il regista Matt Reeves dopo il riuscito Cloverfield (2008). La scelta di dedicarsi al remake di una recentissima opera svedese molto apprezzata in tutto il mondo (Lasciami entrare di Tomas Alfredson, 2008) rappresentava certamente un notevole rischio. Se le premesse per un passo falso c’erano tutte, il quarantaquattrenne newyorchese ne esce invece a testa alta e riesce nell’impresa di confermare molti dei pregi dell’originale (un buon film con diversi difetti, ma con il notevole merito di dare nuova linfa al filone del vampire movie), aggiungendo in più alcuni interessanti tocchi personali sul piano stilistico-visivo e della struttura narrativa.


Los Alamos (New Mexico), 1983. Owen è un ragazzino disadattato preso quotidianamente di mira da tre temibili bulli compagni di scuola. I genitori stanno per divorziare: se il padre se ne è già andato, la madre raramente è a casa e spesso, quando c’è, beve e si addormenta sul divano. Le giornate del giovane scorrono monotone tra la scuola e i pomeriggi passati da solo nel cortile innevato di fronte al suo palazzo. Quando però nell’appartamento accanto a quello in cui vive si trasferisce la misteriosa dodicenne Amy, la sua vita cambia radicalmente. Tra loro si instaura un rapporto speciale ma purtroppo Owen scoprirà presto che Amy è un vampiro e che, di conseguenza, è costretta ad uccidere per sopravvivere.La storia di Blood Story (Let Me In il titolo originale), eccezion fatta per alcune differenze riguardanti in particolare la caratterizzazione del mondo familiare del piccolo protagonista maschile (la madre nell’originale non era alcolista, il padre non aveva alcun tipo di ruolo) e naturalmente l’ambientazione (si passa dalla Scandinavia al New Mexico dei primi anni Ottanta, in piena era Reagan), è praticamente la stessa di Lasciami entrareI grandi punti di forza della pellicola di Alfredson erano senza dubbio il sapiente utilizzo del paesaggio scandinavo, perfettamente funzionale a rappresentare la solitudine dei due bambini protagonisti, e la descrizione del rapporto che li legava. Nonostante Blood Story si svolga negli Stati Uniti, la forza dell’ambientazione in gran parte rimane e l’atmosfera intimistica su cui si fondava il primo film è riproposta in maniera pressoché intatta, sebbene questo rifacimento statunitense punti prevedibilmente meno sul fuori campo, instaurando una relazione più diretta con l’horror e il detective movie. Reeves, che oltre ad essere regista è anche autore dello script del film, si concentra maggiormente sulla sottotrama investigativa e proprio a questo scopo decide di spezzare la linearità di Lasciami entrare, creando una struttura circolare che occupa la prima delle due ore di durata. Ne risulta un film nel complesso più coinvolgente del primo. L’opera del 2008, infatti, dopo un ottimo esordio in cui venivano egregiamente introdotti personaggi e contesto, in parte si perdeva nella frazione centrale per poi riprendersi in modo egregio con il sorprendete e violento epilogo, dando la netta impressione che un minutaggio più agile gli avrebbe dato maggiore forza. Grazie alla essenziale modifica sul piano della struttura narrativa e a una serie di scelte stilistiche di primissimo livello (si pensi ad esempio al frequente utilizzo di Reeves della soggettiva, soprattutto nei venti minuti iniziali, e in particolare alla straordinaria sequenza in soggettiva dell’incidente automobilistico), Blood Story è nel complesso più solido dell’originale ed evita con mestiere ogni possibile calo di ritmo. Da rimarcare è anche il ricorso alla componente sonora, con le musiche originali di Michael Giacchino (Oscar per la colonna sonora di Up) che accompagnano efficacemente il flusso delle emozioni del protagonista. I due giovani e sconosciuti attori, poi, sono bravissimi e riescono sorprendentemente a non far rimpiangere gli ottimi interpreti dell’originale. L’unica nota stonata riguarda il sottotesto politico del lavoro di Reeves: se nei primissimi minuti veniva sottolineato in modo intrigante il parallelismo tra l’era Reagan e l’atmosfera cupa e violenta del film, con il prosieguo dell’opera questa interessante chiave di lettura rimane in superficie senza venire adeguatamente articolata. Articolo originariamente pubblicato su close-up in occasione dell’edizione 2010 del Festival Internazionale del Film di Roma.

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