Sarebbe cosa perfettamente comprensibile se la maggior parte di voi fosse rimasta ferma ai tempi del quinto disco, MorT. Quello, infatti, rappresentava lo stadio terminale di un processo di decostruzione dello stile dei BAN iniziato qualche anno prima con The Mystical Beast of Rebellion, lavoro da molti considerato come uno dei più rappresentativi della carriera dei francesi, composto di sei capitoli praticamente uguali tra loro, che ripetevano allo sfinimento lo stesso distortissimo riff di due note in croce. Quella pseudo trilogia, che includeva pure The Work Which Transforms God (esperienza già molto più praticabile della precedente), catapultò definitivamente i francesi nel mondo del cosiddetto noisy-avantgarde black metal, le cui basi consistevano in una destrutturazione della forma canzone tipica del BM e in una rappresentazione (anche doomy) di stati d’animo a dir poco pessimistici e apocalittici. MorT, nomen omen, segnò la morte ideologica di tutto ciò perché rasentava l’indigeribilità più assoluta, con le sue atmosfere irrespirabili decisamente doom (i cui segnali erano già molto evidenti nell’EP Thematic Emanation of Archetypal Multiplicity). Questa fase dei BAN non rappresenta proprio la mia tazza di tè. E se tralasciamo l’esordio (Vindsval – nostro coetaneo – fece Ultima Thulée che praticamente era un ragazzino), che ricorda certi esperimenti di Håvard Ellefsen e dei suoi Mortiis e Vond, allora tanto in voga negli ambienti underground, e Odinist, descritto dallo stesso frontman come un semplice disco di passaggio buttato giù in due minuti, ci appare chiara pure la logica che sta dietro l’astrusa produzione di quest’uomo, basata su trilogie tematiche: i tre EP di raw black metal What Once Was…, i tre 777 (esperimento poco riuscito, ma non tutto da scartare, di industrial) e i tre Memoria Vetusta.
Se dovessi consigliare a qualcuno che non conosce questa band o che è rimasto fermo a più vecchie produzioni, gli direi di concentrarsi proprio su quest’ultimi, decisamente più consoni ai miei gusti (e vabbè) ma anche decisamente i più ispirati in generale. A partire dal primo, grezzo e violento, al secondo, figlio dell’epoca Hammerheart e Twilight of the Gods, a quest’ultimo che, pur restando fedele alla logica di cui sopra (atmosfere aperte ed accenni di tipico incedere viking), fa un leggero passo indietro nel tempo e si attesta su un black metal senza tanti fronzoli. A volte ad essere semplici si fa la cosa migliore. (Charles)