Si sa che alla Lega piacciono i riti barbarici, le saghe, l’esposizione dell’ampolla con l’acqua del sacro fiume, ancorché ridotto a fogna anche grazie ai suoi amministratori, l’elmo con le corna come i fan del dio Odino. Così oggi non hanno rinunciato all’ostensione delle salme, una comunque più vispa e ironica: Bossi, l’altra utile come una santa sindone capace, sperano, di commemorare e poi anche rinnovare fasti del passato, di fare proselitismo tra quelli che non si ritrovano nelle esuberanze di Salvini, nelle invettive della fascistella alla matriciana, non solo dunque nell’ex popolo delle partite Iva, non solo in quelli asserragliati nelle loro villette unifamiliari e assediati da tasse e balzelli ben più che dagli immigrati, non solo quell’indecifrabile ceto di “padani”, piccoli imprenditori e lavoratori autonomi spesso di origine meridionale, ma anche di riconquistare qualche cumenda, qualche manager, qualche professionista sfuggito alla fascinazione modernamente autoritaria del presidente del consiglio.
Va detto che Salvini ha mostrato una certa abilità, rinunciando anche ad appagare la sua vanità, dismettendo i travestimenti usati fino a ieri nei panni del benzinaio, deponendo la felpa combattente scegliendo una comunicazione più cauta, che tanto tutta la paccottiglia fascio– xeno-razzista più sgangherata, triviale e arcaica era affidata alla Meloni, i programmi del futuro governo della destra a Berlusconi. Mentre lui con ragionevole sobrietà si è tenuto il copione del leader di popolo, quello che parla sì alla pancia, ma anche al portafogli, titolato a dare del cretino a Alfano, ma anche a commuoversi sulle culle vuote, insomma uno che sa essere a un tempo poliziotto buono e poliziotto cattivo, anche se sul palco non rinuncia a ospitare generosamente quelli del sindacato che applaude agli assassini di Aldovrandi. E d’altra parte ha cominciato con un elogio funebre del pensionato morto d’infarto dopo la condanna per essersi fatto giustizia da sé, da encomiabile pistolero de noantri, un modello da imitare. E d’altra parte il fil rouge delle tre prediche è stato proprio l’attacco allo Stato, che premia i delinquenti e penalizza le persone per bene, che irrora gli immigrati con fiumi di denaro e riduce alla fame gli italiani. Tutti temi e slogan che ci riportano al passato come il rosolio nel salotto della signorina Felicita, immutati da quando lo Stato quegli stessi figuri lo espropriavano di volontà, potere e competenze in un susseguirsi di governi ladri e assassini, tra respingimenti, leggi ad personam, leggi e parlamentari porcelli, salassi locali sotto forma di corruzione endemica.
Ma si sa che la sfrontatezza è diventata virtù condivisa di un ceto politico che mente, occulta, manipola, nasconde o esibisce dando modo a una stampa assoggettata di farci avere frammenti di verità e realtà. Così oggi Berlusconi con una faccia di tolla che ha una sua grottesca magnificenza ha condannato l’azione di governo e la sua legge elettorale che annienta la partecipazione, misfatto perpetrato da un fannullone mai stato eletto in favore di futuri non eletti. Così Salvini ha citato Calamandrei, e non è la prima volta: insieme a lui dovrebbero denunciarlo per abuso Primo Levi, Franklin, il Papa, Don Milani e altri oggetto di frettolose letture di risvolti di copertina e di Wikiquote. E tutti e due citano la Costituzione che va salvata, quella che fino a tre anni fa per loro rappresentava un molesto ostacolo a libera iniziativa, buon governo, competitività e appagamento di talenti e ambizioni.
Tutti e due non hanno taciuto di aver paura del babau 5stelle, della banda di balordi guidata da Grillo che urla come Hitler, proprio loro che sfoderano Casa Pound a intermittenza, per riporla in naftalina quando devono mettersi in doppiopetto. Mentre pare faccia loro meno paura il Pd e ci credo. Basta sentire l’accusa principale mossa a Renzi da Berlusconi di aver costruito un sistema con un’unica camera che fa le leggi, un solo partito con il 55% dei deputati, un partito che avrà un solo duce…. Sembrava proprio uno di quei padri padroni che ha aperto le porte dell’azienda al figlio debosciato, senza nemmeno avergli fatto fare la gavetta, che lo ha promosso, gli ha dato una bella paghetta, lo ha infilato in consiglio di amministrazione e poi quando quello ha mostrato di voler fare la scalata ai beni di famiglia, si arrabbia, lo vuol mettere in riga, ma al tempo stesso è fiero che il rampollo sia addirittura più spregiudicato di lui.
Tanto da completare il suo disegno di privatizzazione della cosa pubblica, dal territorio alle aziende, dal parlamento alla politica, dalle risorse alla Costituzione, passando, potendo farlo, per tribunali, prigioni, beni artistici e monumenti. E infatti i punti programmatici sui quali lo stanco depravato incitava la claque a fargli da eco coincidevano largamente con le riforme renziane: ammazziamo le burocrazie, imponiamo la benefica “semplificazione”, largo al talento e all’iniziativa personale e imprenditoriale, via le tasse sulla casa, meno Stato, meno vincoli, meno controlli.
Anche in questo il padre padrone e il figlioccio intraprendente sono speculari: si assomigliano, ubbidiscono alle stesse leggi non scritte, che altro non sono che comandi padronali, non si temono l’uno con l’altro, c’è sempre spazio di trovare un accordo, c’è sempre qualche Verdini, qualche Bondi, qualche uomo in vendita a fare da tramite evidente a patti occulti e l’importante è salvare la “roba”, le aziende, le poltrone, i consigli di amministrazione, i quattrini, i potentati proprio come succede nelle Famiglie, si proprio quelle, e non venite a dire che la mafia non esiste.