bon jour grandeur...
Creato il 11 ottobre 2014 da Omar
«Non era stanco. Non aveva paura. Non aveva sete, né sonno, né fame. Non sentiva niente, non pensava. Se ne stava disteso sulla schiena, lo guardo vuoto, nel freddo, nelle tenebre. Soltanto, a notte inoltrata, pensò che stava morendo. Non sapeva come si muore».
Mentre Stoccolma si accinge a premiare Modiano, un francese, con il suo più blasonato riconoscimento, ci piace unirci alla commemorazione del centenario della nascita di un altro grande letterato d'oltralpe, Romain Gary, un personaggio forse poco noto in terra italica ma che ha dalla sua una vita e una produzione artistica davvero degne di risalto.Di origini lituane, Gary si stabilisce giovanissimo con la famiglia a Parigi. Qui dopo gli studi di giurisprudenza si arruola nell'aviazione per raggiungere la "Francia libera" (l'organizzazione di resistenza fondata da Charles De Gaulle) nel 1940 e prestarvi servizio nelle Forces aériennes françaises libres. Termina la guerra come "compagnon de la Libération", decorato con la Legion d'onore. Alla fine delle ostilità, intraprende una carriera da diplomatico, soggiornando a lungo a Los Angeles, negli anni cinquanta, in qualità di Console generale.
Quando comincia scrivere, il successo gli arride subito. Numerosi i romanzi in classifica, alcuni scritti con diversi pseudonimi (il gioco delle identità fu una caratteristica pressoché costante del suo estro creativo). Presto incarnerà il prototipo dello scrittore fascinoso e bohemienne: baffi curati, sigaretta perennemente appesa al labbro e occhi verdi felini capaci di scavare a fondo, farà parlare di sé anche per la sterminata sequela di belle donne con cui intrecciò relazioni. Ma pur mietendo una moltitudine crescente di consensi (diversi suoi libri sono anche stati adattati per il cinema, in particolare Chiaro di donna, 1979, da Costa-Gavras, con Yves Montand e Romy Schneider come protagonisti, e La vita davanti a sé, 1977, di Moshé Mizrahi, che ottenne l'Oscar come miglior film straniero, e con Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa, che ottenne il César come miglior attrice) lo scrittore si portava appresso - come da manuale - un profondo, insanabile malessere interiore.Nel 1980, ai primi segni di decrepitezza, quando si rese conto di cominciare a perdere ciò che rendeva grande il suo talento (o forse quando intuì di non averlo mai posseduto per davvero dacché il dono dell'arte è volatile per definizione) Romain Gary mise fine alla sua esistenza sparandosi un colpo in testa. Non prima di scrivere egli stesso la sceneggiatura della propria morte: la vestaglia color vermiglio addosso per placare la visione del sangue, il biglietto accuratamente in bella vista: «Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove», perché sarebbe stato il colmo se il fragore di quella deflagrazione fosse andato a confondersi con il clamore della morte, l’'anno precedente, della bellissima e infelicissima Jean Seberg, l’'attrice americana che non era mai più riuscita a liberarsi dalla maledizione di Bonjour tristesse, che lui aveva sposato, forse amato e infine lasciato.
Perché fosse stato il protagonista di un suo romanzo o di un suo film, Romain Gary si sarebbe raccontato probabilmente più eroico e maestoso di quanto fu nella realtà. Invece non riuscì mai, ad esempio da partigiano, a convincere se stesso di aver scelto De Gaulle piuttosto che Pétain per convinzione morale e politica invece che per semplice, forse estetica casualità. Conquistò la Legion d’honneur da eroe di guerra, ma anche nel suo eroismo teatrale c'’era qualcosa di disordinato e artificioso, un dannunziano gusto del gran gesto: «La verità è che ci sono momenti nella storia, momenti come quello che stiamo vivendo, in cui tutto quel che impedisce all’uomo di abbandonarsi alla disperazione, tutto ciò che gli permette di avere una fede e continuare a vivere, ha bisogno di un nascondiglio, di un rifugio (…). Vorrei che il mio libro fosse uno di questi rifugi e che aprendolo, alla fine della guerra, gli uomini ritrovassero intatti i loro valori e capissero che, se hanno potuto forzarci a vivere come bestie, non hanno potuto costringerci a disperare», scrive in Educazione europea, il libro che Sartre - non avendo letto Beppe Fenoglio - giudicherà il migliore sulla resistenza europea e che in Italia Neri Pozza ha ripubblicato dopo i toccanti La promessa dell’'alba e La vita davanti a sé.
E come in una delle sue elegantissime e inquietanti vicende libresche, dopo gli eroismi della guerra Gary si tramutò a tal punto in un personaggio da restare imprigionato nel proprio ruolo: prima ambasciatore di Francia; poi, nel 1956, con Les racines du ciel, premiato tra le fanfare al Goncourt che non sarà il riconoscimento del Nobel ma per i francesi è anche di più; quindi l'amore per Jean Seberg - e chissà se mai egli in prima persona avrà compreso se è della magnifica e malinconica donna statunitense che diventerà marito oppure piuttosto della triste fanciulla di Bonjour tristesse.Poi, assecondando un tristo canovaccio delle relazioni burrascose (ammesso ne esistano d'altro tipo), arriva inesorabile il divorzio cui seguiranno mille altre donne amate, ma il sopraggiungere dei Sessanta lo trova improvvisamente vecchio e superato: un monumento agée su cui i giovani della contestazione gettano a malapena uno sguardo per passare oltre, verso nuovi idoli.
Così, mentre la sceneggiatura della sua vita sta per trasformarsi in un viale del tramonto, Gary si reinventa risalendo sul palcoscenico con indosso un nuovo, scintillante travestimento: con lo pseudonimo di Emile Ajar, facendo credere che costui sia il proprio nipote, scrive La vita davanti a sé, la storia di un ragazzino arabo di una banlieue, e si merita un altro Goncourt: un modo geniale di riconquistare l'applauso per puro, personale godimento segreto. Solo dopo la sua dipartita si scoprirà infatti la vera identità di Emile Ajar. Ma intanto Gary aveva impersonato da istrione un'altra delle sue proverbiali maschere, quella dello scrittore-fenice che rinasce dalle sue ceneri, mentre il resto del mondo lo considera finito.
Ma ormai è troppo tardi. L'angoscia che per decenni aveva lavorato sottotraccia, celata sotto un velo apparentemente non scalfibile di mondanità e narcisismo, torna a recriminare il suo dominio. Stanco delle sue mille interpretazioni, l'attore vitale e borioso cede il passo all'uomo e alle sue miserie. E forse, quel 3 dicembre 1980, prima di premere il grilletto e farsi esplodere il cervello, si sarà ripetuto ciò che il ragazzo Janek aveva ascoltato, nel gelo della foresta: «Non esiste un'’arte disperata: la disperazione è solo mancanza di talento».
(fonti: vari articoli dalla rete)• pagina dedicata all'autore sul sito Neri Pozza
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