Cari lettori, nuovo appuntamento con la rubrica destinata a riproporre i passaggi pià belli delle nostre letture, o anche semplicemente quegli estratti che, per un qualsiasi motivo - vuoi un ricordo o una frase detta il giorno prima - riteniamo meritevoli di essere riportati. (Per ulteriori informazioni sul come e sul perchè di questa rubrica, vi rimando al post d'introduzione.)
Mai era una parola che non le piaceva. Non per via dell'infinitezza che implicava o per quella sensazione d'implacabilità ostinata che suscitava all'orecchio, ma perchè era, per sua stessa definizione, improbabile. L'improbabilità la disturbava.
Iperbole perfetta, mai era una parola sfacciata, soprattutto per essere un avverbio. Illimitata e indiscriminata, mai riusciva in ciò a cui poche parole arrivavano. Rifiutava di essere qualificata, di soccombere alla razionalità o d'esserne imbrigliata per più d'una sola frase. Mai sconfiggeva la logica e, per Abigail Harker, nulla poteva essere più sconvolgente.
Abigail notava sempre gli accenti, le espressioni gergali, i colloquialismi. Le tendenze verbali erano la prova, secondo il suo punto di vista, delle capacità della lingua, della sua forza. Era un prodigio in sè e per sè. Gli abusi che essa sopportava erano impressionanti. Le parole venivano abbreviate, allungate, saccheggiate e imbastardite, eppure sopravvivevano, sempre flessibili. Le parole avevano una resistenza che lei invidiava loro.
Il bisogno di essere ricordati è un istinto. Nessuno vuole essere dimenticato, svanire, perdersi nella memoria. Ecco perchè la gente scarabocchia parole dappertutto, dalle panche ai cavalcavia, ai marciapiedi di calcestruzzo ancora freschi. Le ferite che lasciano nella materia non la fanno dimenticare. A volte, però, ricordare può essere anche peggio dell'essere dimenticati. Abigail lo sapeva. Ricordare apre una ferita diversa.