Lì dove la città finisce ho annegato il mio ultimo proposito. Su uno specchio di mare piatto e antracite sono scivolato via, finito, sul limite del mare che la terra lambisce, finisce. Un gabbiano sporco di grasso sintetico riesce dove mai riuscirei, lasciare questa riva di pietre e lampioni puzzolente di alghe ammassate sul bordo di città e guardarmi dall’alto, dall’acqua, per capire quanto sono lontano da tutto e minuscolo al mondo. Insetto in balia di uno sbuffo di vento che mi sbatte sull’acqua, atterro su un pezzo di legno che galleggia bruciato, su frammenti di cose disfatte, di cose finite in un posto impreciso e lì resto, vago. Dove la città finisce, lì ricomincio. Dall’ultima frase che ho detto prima di tacere a lungo, da quel sasso di parole indurite dal freddo riparto, con nuovi pensieri trovati dove prima non erano, dove prima non c’ero. Dove la città finisce, lì amo restare, con le mani sulla terra e i piedi già in acqua, pronto a seguire la spinta del mare che da sempre arriva e riparte, dal mondo e nel mondo. Pietra calcarea scheggiata da scogli appuntiti e cariati dal sale precipito in buche profonde decenni, mi aggrappo e mi strappo le unghie e per questo mi fermo, risalgo la china, mi spolvero gli occhi sporchi di cenere e con tutto il male del mondo io faccio i miei conti e sorrido.