Tra i tanti difetti che ho – e che costituiscono un sicuro ostacolo tra me ed una serena vita matrimoniale, o, quanto meno, con un fidanzato – riveste, secondo la mia famiglia, una centrale importanza l’assoluta incapacità di curare una pianta e farla sopravvivere per più di una settimana senza poi farla morire di stenti.
Dalla più piccola età hanno cercato in tutti i modi di insegnarmi a comunicare con la forma di vita per me più enigmatica del pianeta Terra eppure, alla riffa di Natale, quest’anno mi sono trovata a sperare di non vincere la Stella di Natale messa in palio da un simpaticone che non voleva – evidentemente- fare un regalo ma affibbiare una grande responsabilità: la sopravvivenza di un essere vivente.
Vi dico subito, per non protrarre oltre la vostra apprensione, che la minaccia di macchiarmi di un nuovo omicidio di vittima vegetale è stata facilmente evitata perché oltre l’amore, anche il gioco per me è problematico, ma rimane comunque la questione di fondo e che ho scoperto molto comune e generalizzata per noi della generazione più urbanizzata della storia: il rapporto con la vegetazione.
La vita bucolica non ci appartiene: ci limitiamo ai pic-nic nei parchi e alla scampagnata di Pasquetta (anche se non ottiene consensi unanimi nemmeno questa), mentre i più avventurosi fanno jogging nel bosco di Villa Ada, ma… è proprio tutto qui.
Eppure, i prodigi della modernità hanno trovato una soluzione anche per noi e non sono delle tristissime piante finte.
Lo Studio Boeri ha pensato proprio a noi, evidentemente, (oltre che ad una lunga serie di poderosi problemi urbanistici quali l’inquinamento, la carenza di aree verdi, l’autosufficienza energetica) nella progettazione del Bosco Verticale realizzato a Porta Nuova, Milano.
Due grattacieli, di 112 e 80 metri di altezza, che ospitano circa 480 alberi di grande e media altezza, 250 alberi di piccole dimensioni, 11.000 piante e 5.000 arbusti per una superficie verde paragonabile a quella di un bosco di 10.000 mq.
E come ogni ecosistema che si rispetti, non c’è alcun bisogno della cura dell’uomo. L’irrigazione delle piante è centralizzata e sfrutta un sistema di filtrazione delle acque grigie per cui – anche un’assassina di piante come me – potrebbe giovare dell’isolamento acustico, dell’ossigeno puro e delle energie rinnovabili che questo sistema avveniristico produce.
Davvero un progetto rivoluzionario, tanto da essere stato premiato, con l’International Highrise Award del museo di Architettura di Francoforte come grattacielo più bello al mondo.
Nella motivazione è citata proprio, tra le altre cose, la capacità di rispondere “al bisogno umano di contatto con la natura” senza, evidentemente, spezzare il bisogno di città e metropoli cui l’uomo moderno non sa rinunciare.
Eppure è proprio tutto l’inverso del Barone Rampante o di una casa sull’albero.
La natura non è la casa e, ad essere sinceri, non sembrano del tutto a sproposito le critiche di chi vede in questa costruzione niente di più della massima esaltazione dell’urbanizzazione e dell’antropizzazione perché – in fin dei conti – rimane pur sempre un grattacielo, e le piante null’altro che un sofisticato oggetto di arredo di grande beneficio alle medie matematiche per la stima dell’inquinamento del capoluogo lombardo.
Il bosco è un’altra cosa, e la foresta (come alcuni chiamano anche la struttura) è quanto di più lontano dalla città. Un paragone tra la giungla metropolitana e la foresta pluviale tropicale può soddisfare qualche rapper, ma un albero che cresce sul balcone e di cui non mi devo nemmeno curare mi fa sentire più cittadino delle luci sempre accese che vedo dalla mia finestra.
Gli alberi, d’altra parte, non potranno crescere più di quanto stabilito nel progetto, in cui è, infatti, previsto anche un poderoso sistema di abbattimenti ed eradicazioni, perché rimane di fondo l’eterno conflitto tra uomo e natura: l’amore, il bisogno, ma soprattutto la paura che questa prenda il sopravvento e spazzi via tutta la fatica che si è fatti per controllarla.
Allora guardo l’unica pianta superstite che ho e che non getterei via a cuor leggero solo perché non è più abbinata al colore del divano e mi viene da pensare a quanto costosa ed inumana è l’umanizzazione del mondo, l’urbanizzazione e poi alle Città Invisibili di Calvino dove è racchiusa la più lineare descrizione del mio pensiero un po’ confuso:
“È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure” .
di Andrea Giulia Monteleone