In Bosnia, nel silenzio generale dei media, da qualche settimana la gente scende in piazza per protestare. Crisi economica, sfaldamento del Paese, tanti i temi che spingono alle manifestazioni. La tensione sale. Sperando non precipiti.
SARAJEVO – Gli ultimi 10 giorni hanno visto sorgere in Bosnia Erzegovina la più importante manifestazione di protesta civile a partire dai tempi della formazione della Repubblica federale, nel 1995. È da oltre una settimana che le manifestazioni di dissenso – dopo aver preso il là nei principali centri ex industriali di Tuzla, Brčko, Bihać – interessano anche la capitale Sarajevo e cittadine periferiche come Zenica, Mostar, Kakanj, Sanski Most, Gračanica, Zavidovići, Bugojno e Orašje.
La mobilitazione è iniziata a Tuzla, nel nord-est del paese, dove mercoledì scorso oltre 500 operai hanno manifestato davanti al governo cantonale puntando il dito contro il processo di privatizzazione degli ex colossi industriali di proprietà statale che ha lasciato senza lavoro nè protezione oltre 10 mila lavoratori.
La protesta, che chiedeva al governo cantonale misure urgenti per far valere i diritti contrattuali o almeno di pilotare la bancarotta delle aziende in modo da ottenere i sussidi di disoccupazione e recuperare le spese di previdenza sociale, è rapidamente montata. Il giorno seguente i partecipanti sono diventati alcune migliaia e davanti al rifiuto delle autorità di dialogare, la mobilitazione è sfociata in scontri con la polizia e nell’incendio della stessa sede del governo cantonale.
A due giorni di distanza, la protesta si è diffusa anche nella capitale Sarajevo, dove non ci sono grandi poli industriali in declino ma la disoccupazione – come nel resto del paese – raggiunge il 30%. Qui, come negli altri centri urbani, la manifestazione ha avuto un carattere spontaneo, è stata priva di affiliazioni partitiche e non è stata supportata dai sindacati nè caratterizzata da richiami etnici o nazionalisti.
Disagi che vengono da lontano, dalla fine della guerra, anno 1995:
L’assetto istituzionale previsto dalla costituzione di Dayton, redatta in inglese e solo successivamente tradotta nelle lingue locali, avrebbe dovuto consentire l’avvio di una transizione. In 19 anni ogni tentativo di riforma è fallito; gli accordi hanno indubbiamente fatto deporre le armi, ma non hanno posto le basi di un’effettiva pacificazione, proiettando il paese in due decenni di un interminabile dopoguerra.
Oggi, l’errore principale sarebbe propio quello di ricollegare le proteste di questi giorni alla guerra, per via di risentimenti etnici o di frizioni nazionaliste. Al contrario, non sono queste le ragioni della mobilitazione. Le piazze sono mosse dal sentimento spontaneo di discredito dell’intera classe politica – della quale chiedono le dimissioni, rifiutando di sottostare al divide et impera su base etno-nazionale che nelle repubbliche ex jugoslave (e soprattutto in Bosnia Erzegovina) ha permesso alle élite di mantenere indisturbata il potere.