BOSNIA: I retroscena dell’attentato all’ambasciata americana di Sarajevo

Creato il 15 dicembre 2011 da Eastjournal @EaSTJournal

di Matteo Zola

Moschea di Travnik (BiH), dettaglio - foto di Matteo Zola

Lo scorso 28 ottobre, a Sarajevo, un attentatore wahabita sparò 105 colpi contro l’ambasciata americana seminando il panico per le strade della capitale bosniaca. Un attentato che, a una prima lettura, si può ascrivere al terrorismo di matrice islamista: un fenomeno esogeno in Bosnia Erzegovina, importato con le guerre jugoslave quando la leadership bosgnacca (bosniaco-musulmana) si rivolse al mondo arabo al fine di ricevere aiuti umanitari e militari necessari per contrapporsi efficacemente alle milizie croate e serbe che cercavano di spartirsi il Paese.

Dai Giovani Musulmani alla guerra

Negli anni Novanta nasce infatti l’Sda, il partito musulmano di azione democratica che raccoglie al proprio interno l’organizzazione panislamista dei Mladi muslimani (Giovani musulmani) che ha caratterizzato il nuovo partito con una concezione radicale dell’Islam. E’ da notare che i Giovani Musulmani combatterono a sostegno del regime degli Ustascia di Ante Pavelic durante la Seconda Guerra mondiale e che molti servirono nella divisione SS Handžar (Il Pugnale, che nel 1991 il governo bosgnacco cercherà di far rivivere). La contraddittorietà dei Giovani Musulmani è la stessa che ancora oggi agita il fronte politico islamico diviso al suo interno in varie anime, dalla moderata, alla laica, alla radicale, alla nazionalista.

Tra i membri dell’Sda provenienti dai Mladi Muslimani spicca il nome di Alija Izetbegovic, destinato a diventare il primo presidente della Bosnia indipendente. Oggi è il figlio Bakir a ricoprire lo stesso ruolo.

Il trionfo della linea nazionalista islamista

Di fronte alla minaccia bellica la linea nazionalista radicale di Alija Izetbegovic ha la meglio su quelle moderate, i partiti multiculturali finiscono  emarginati dal discorso politico bosniaco. Il potere di Sarajevo si caratterizza così per un inedito nazionalismo musulmano. La guerra esaspera la componente panislamista dell’Sda, favorendone le retoriche nazionalistico-religiose, ma ciò che va sottolineato è che il conflitto armato è reso possibile proprio dallo slittamento progressivo (ma costante dalla fine degli Ottanta) da comunità musulmana a nazione musulmana.

La definizione di “nazione” era già del titoismo ad indicare nei musulmani la “settima nazione” alla quale però mai seguì l’espressione territoriale. Ora, invece, i bosniaci musulmani (autodefiniti bosgnacchi) avevano sviluppato la volontà e la capacità di gestione di uno Stato –attraverso l’operato dell’Sda – legandola gioco forza all’espressione di una religiosità radicale che a quello Stato dava una identità.

Durante la guerra viene a più riprese praticata la pulizia etnica anche da parte musulmana attraverso il ricorso allo stupro (fatto spesso omesso dalle cronache: tutte le forze in campo hanno praticato la pulizia etnica, anche se in misura differente). La dirigenza dell’Sda ha contestato sempre, anche dopo la guerra, l’utilizzo della pulizia etnica facendo riferimento al Corano (proteggere le genti del Libro: ebrei e cristiani) ma le testimonianze di centinaia di vittime sono lì a smentirla.

Mujahidin in Bosnia Erzegovina

E’ in questo contesto che la dirigenza dell’Sda, che si riconosce nella Umma e punta alla costruzione di uno Stato islamico, si rivolge a confratelli musulmani. In verità Izetbegovic cerca aiuto sia a occidente che nel mondo musulmano. Solo in quest’ultimo trova appoggio concreto: dall’Iran e dal Sudan, dalla Libia, dall’Iraq e dall’Indonesia. Un appoggio che si tradurrà nell’invio di truppe, osservatori e armamenti.

Il numero di mujahidin affluiti nella regione è oggetto di analisi discordanti tra i vari studiosi. Si tratterebbe di qualche migliaio, una cifra non elevatissima ma importante nel contesto balcanico. La loro provenienza, secondo l’analisi Xavier Boulgarel e Nathalie Clayer (in Le nouvelle Islam balkanique, Maisonneuve & Larose, Paris) è varia: molti sono gli arabi-afgani, reduci dal conflitto tra Afghanistan e Unione Sovietica. Accanto a loro ci sono i combattenti dei vari gruppi fondamentalisti: GIA e FIS algerino, Al-Jihad e Jama’at Islamyya egiziani, Harakat ul-Ansar pakistano. Fondamentale è la presenza di pasdaran iraniani (i più numerosi a intervenire in Bosnia) e hezbollah libanesi. Non mancano poi musulmani balcanici, kosovari e macedoni.

I volontari si aggiungono alle unità musulmane o ne formano di proprie. Queste ultime sono caratterizzate da un forte indottrinamento religioso e prendono il nome di “Muslimanske snage”. A loro capo si insedia Abu Abdul Aziz, veterano di molte jihad, che dichiara di non essere sotto il controllo dell’esercito bosniaco. Alla fine del 1992 le “forze musulmane” vengono inquadrate all’interno della 7ª brigata bosgnacca. La presenza straniera provoca urti inevitabili: i bosniaci non considerano la Bosnia una jihad fra le altre; gli stranieri cercano di imporre la loro concezione salafista dell’islam che condanna il sufismo (tollerante e laico) locale. Alla fine la 7ª brigata sarà divisa e gli stranieri saranno raggruppati nel battaglione “El-Mudžahid”. Il loro numero si sarebbe attestato sulle 4-6mila unità ma, secondo molti studiosi, il loro valore militare è stato sovrastimato.

Dalla guerra alla ricostruzione. Le Ong delle armi

Alla fine della guerra la corrente panislamista non è abbastanza forte da imporre la sua linea. L’Sda che esce da Dayton è disunito, la presenza di pasdaran e mujahidin non piace a molti nel partito. Anche la popolazione avverte gli ex-combattenti come estranei nella loro comunità, poiché portatori di un Islam radicale e violento. Solo il clero appoggia l’ala radicale dell’Sda giungendo infine a controllarla. I Paesi che s’impegnarono nella fornitura di uomini armi, sono diventati gli attori della ricostruzione. Molti investimenti provengono dall’Arabia Saudita e molte moschee sono state erette con i fondi sauditi facendone centri d’irradiazione del wahabismo. Organizzazioni umanitarie non governative saudite e kuwaitiane operanti in Bosnia sono anche state messe sotto osservazione, in particolare dopo gli attentati dell’11 settembre.

Wahabiti di seconda generazione. Giovani delle Madrase

Arriviamo così ai giorni nostri, la presenza di fondamentalisti musulmani, reduci dal conflitto, è marginale. Essi sono dediti ad attività criminali comuni fino al traffico di stupefacenti. Quando privi di capacità d’iniziativa propria essi si vendono come gruppi di fuoco per trafficanti stranieri. In limitati e sporadici casi la loro violenza si rivolge ai simboli del cosiddetto Occidente. L’attentatore del 28 ottobre scorso è un seguace del wahabismo ma ciò che sorprende è che appartiene alla seconda generazione dei fondamentalisti islamici balcanici. Mevlid Jašarević, questo il suo nome, ha 23 anni. Abbastanza per averne già scontati tre nelle galere austriache, alle quali era stato condannato per una rapina a Vienna. Quando fu rilasciato nel 2008, le autorità austriache lo espulsero dal paese. Vienna è uno dei centri del wahabismo europeo, Vienna ha un legame a doppio filo con i Balcani e durante la guerra fu crocevia di traffici di armi, droga e soldi sporchi debitamente riciclati negli istituti austriaci.

Mevlid Jašarević attentò all’ambasciata americana con un kalashnikov in mano e tre bombe legate in vita. Fu neutralizzato da un cecchino mentre passeggiava avanti e indietro davanti all’ambasciata crivellata dei suoi colpi. Sembrava cercasse di farsi uccidere, forse il martirio? L’avvocato di Jašarević, Senad Dupovac, ha descritto il gesto del suo cliente come l’azione di un militante solitario affetto da disturbi mentali: “Il suo obiettivo era quello di essere ucciso dagli ufficiali di guardia dell’ambasciata statunitense per diventare un martire e andare in paradiso.”

Dopo il suo arresto la polizia ha arrestato Emrah Fojnica, 20 anni, Dino Pecenkovic, 24 e Munib Ahmetsphaic, 21 anni. Giovani educati nelle Madrase d’ispirazione saudita, figli del radicalismo. I primi nativi bosniaci fondamentalisti nella Storia di un Islam, quello balcanico, tradizionalmente tollerante e ispirato al sufismo. La vera domanda è dove hanno preso le armi e come tali gruppi si organizzino. Il ministro della sicurezza bosniaco Sadik Ahmetovic ha negato che elementi deviati dell’amministrazione e delle forze dell’ordine stiano proteggendo i predicatori wahabiti. Excusatio non petita.

Parola di Antonio Evangelista

Come riportato da Bright, il magazine del network Flare, Antonio Evangelista, durante un forum internazionale sul crimine organizzato a Pechino, celebratosi il giorno successivo all’attentato all’ambasciata americana a Sarajevo, ha citato le parole di Ali Ahmed Ali Hamad pronunciate davanti a un tribunale Onu con le quali l’ex comandante di Al-Qaeda, testimoniava di aver ricevuto denaro dalla Alta Commissione Saudita per gli Aiuti alla Bosnia-Erzegovina per far entrare armi in Bosnia Erzegovina attraverso Ong dalla facciata umanitaria ma create per questo scopo. Antonio Evangelista, funzionario di polizia tra i massimi esperti di terrorismo transnazionale e autore del libro Madrasse, Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa, ha raccontato il fenomeno delle scuole coraniche in Bosnia che hanno accolto centinaia, se non migliaia, di orfani di guerra formandoli attenendosi a una rigida interpretazione del testo sacro.

Evangelista, in un’intervista a PeaceReporter, ha dichiarato: “L’estremismo islamico che ha piantato le sue radici nei Balcani, in Kosovo e soprattutto in Bosnia, non è da considerare un problema ‘vicino a noi’, a un’ora di volo. Sarebbe un errore di calcolo: il problema non è ‘vicino a noi’, è in mezzo a noi. È nato un ceppo islamico europeo – dice Evangelista -, i cui appartenenti hanno i capelli biondi, gli occhi azzurri, sono alti e possono confondersi con le popolazioni occidentali. Stanno sperimentando la convivenza con il nemico, stanno cercando nuovi alleati”.

Conclusioni

Ecco che l’attentato all’ambasciata americana di Sarajevo si mostra quale evento interconesso a una strategia criminale e politica di ampio respiro che ancora una volta trova nei Balcani occidentali, e nell’assenza di una struttura giuridica e sociale forte, l’humus ideale in cui crescere e svilupparsi. Se il pericolo integralista sia della gravità espressa da Evangelista, non sappiamo. Certo non ci si deve abbandonare a facili allarmismi ma nemmeno ignorare il problema in nome della balcanofilia e dell’ottimismo.


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