Riproponiamo alcuni passaggi del libro di Margaret Mazzantini, “Venuto al mondo”, vincitore del Premio Campiello 2009. Gemma e Diego sono una scalcagnata coppia italiana – lei redattrice, lui fotografo – conosciutisi a Sarajevo nel 1984 e che nel 1992, ritornati in città, si ritrovano a testimoniare l’inizio dell’assedio. Buona lettura. (seconda parte)
“Dicono che non durerà, che finirà subito…”
Bambini a Sarajevo, 1992. Foto di Christian Maréchal.
Volevamo andarcene subito, invece passarono i giorni. Gojko era stato in aeroporto. La gente assaltava gli aerei fermi sulla pista di Butmir, gli ultimi voli che lasciavano la città sembravano carri bestiame, persone ammassate nei corridoi, nella toilette.
Restammo in casa davanti al televisore. Il presidente Izetbegović tranquillizzava la popolazione, la guerra in Croazia non si sarebbe spostata in Bosnia. Invitava a uscire tranquillamente nelle strade.
Invece la città era circondata. Su ogni altura cannoni, mortai, obici, kalashnikov, mitra, fucili di precisione.
L’Armija, il glorioso esercito jugoslavo che avrebbe dovuto proteggere la città, in realtà aveva svuotato le caserme. Per mesi, pezzo a pezzo, si erano portati via tutti gli armamenti per piazzarli sui monti intorno. Per difesa, era stato detto. Ormai era troppo tardi per chiedersi come mai le armi di Sarajevo fosse puntate contro Sarajevo.
Gojko continuava a sperare.
“Non durerà… pochi giorni e ne saremo fuori. Abbiamo gli occhi del mondo addosso…”
Accompagnava frotte di giornalisti in giro per la città, a filmare i buchi delle granate, le immagini di quella popolazione civile inerme, disarmata.
“L’importante è far sapere quello che sta succedendo.”
Le kafane erano ancora piene di ragazzi che dicevano la loro, birre, sigarette e voci una sull’altra. Voci libere, certe di essere udite, di scavalcare quei monti per rotolare sui tavoli dell’Europa, forti, incisive.
I ragazzi credevano ancora che il mondo avesse orecchie. Il vecchio Jovan no. Era un ebreo serbo, di Sarajevo. Si toglieva le scarpe quando entrava in casa, come i musulmani, per rispettare la moglie. Non leggeva più i giornali, non ascoltava più i notiziari. Restava ore a guardarsi i piedi chiusi nelle babbucce di lana.
Era maggio. Intanto bruciavano l’Ufficio Postale e la caserma Maresciallo Tito.
Era maggio. Mese di primule e tarassachi fioriti, di piccole rondini sulla riva della Miljacka.
Tutti si illudevano che fosse solo un attacco, nervosismo che sarebbe finito presto. Come un sisma che torna al suo posto.
Intanto gli ufficiali dell’Onu se ne andavano dalla casa di riposo di Sarajevo, si trasferivano a Stojčevac.
Intanto bruciavano l’Ufficio Postale e la caserma Maresciallo Tito.
Intanto si scoprivano cecchini appostati ovunque nella città. Era cominciata la vivisezione quotidiana. Quei mirini sofisticati che inseguivano le persone fino a vedergli il colore degli occhi, il sudore sotto il naso.
Chi erano quelli lassù? I cetnici, gli animali. Gente venuta da fuori o gente sgusciata fuori dalla città? Ragazzi che hanno risalito i monti strisciando per unirsi al demonio, uccidere i loro compagni di corso all’università, i loro amici di sempre…
Velida si metteva le mani sugli occhi, la schiena ancora diritta.
“Non è vero, non può essere vero.”
Eravamo rimasti per far compagnia a quei due vecchi. La sera giocavamo a carte su un piccolo tavolo incappucciato di panno verde. Velida distribuiva grappa di mirtilli e dolcetti impastati con il miele. Sentivamo il suono sordo di quei colpi che si afflosciavano nella notte. Piovevano granate a Dobrinja, a Vjnicko Polje. A Mojmilo… Pensavo ad Aska. (…) Ogni giorno scrutavo la lista dei morti, su Oslobodjenje, con la paura di trovare il suo nome.
La nostra kafana non c’era più. Polverizzata. Centrata in pieno da una granata. Non restava che un buco spettrale, metallo avviluppato, futurista. Per fortuna nessuno dei nostri amici era lì. L’esplosione era avvenuta al mattino presto, a rimetterci era stato solo un povero inserviente albanese che dormiva nel retro.
Caddero anche i vetri delle nostre finestre. Facemmo come tutti gli altri, inchiodammo teli di plastica ai telai. La luce filtrava appena da quei tendaggi opachi. La notte e il buio arrivavano presto. Non c’era più elettricità. Velida e Jovan ormai vivevano solo nella zona più interna della casa… la sera stavano lì, davanti ad una candela, ad aspettare che la fiamma morisse nella cera. Non avevano intenzione di lasciare la loro città. Né di scendere nelle cantine, come ormai facevano in molti.
Ci eravamo abituati alle sirene degli allarmi, ai sibili delle granate. Credevo che non avrei potuto dormire mai più, restavo sveglia, gli occhi sbarrati. (…) Poi imparammo a dormire, a sprofondare nel sonno pur di uscire per qualche ora da quel lager. Il giorno di svegliavamo presto, approfittavamo della luce. Diego usciva e io lo stringevo forte. Adesso tutti si stringevano forte ogni volta che si incontravano, si salutavano come se non dovessero rivedersi.
L’istruttore di ginnastica di Sebina era morto, era morta anche la farmacista. Corpi che rimanevano per un pezzo soli… perché era troppo pericoloso avvicinarsi, lo sniper aspettava sul suo mirino. Venivano trascinati via solo di notte, e di notte venivano sepolti nel vecchio cimitero musulmano. Funerali silenziosi, gente lieve come farfalle notturne. Si sfidava la morte per seppellire la morte.
Imparammo tutto in quei giorni di maggio. Imparammo a riconoscere la gola roca dei kalashnikov, il sibilo delle granate. Il botto del mortaio e poi quel sibilo. Se dopo il botto lo sentivi sulla tua testa attraversare il cielo con il suo fischio, voleva dire che l’avevi scampata. Se non sentivi niente, aveva già fatto il suo arco e forse era in picchiata dalle tue parti. Imparammo che, il giorno dopo un carnevale di esplosioni, in genere la montagna taceva. Imparammo che ad una certa ora gli sniper entravano in pausa pranzo… e che al tramonto la loro mira peggiorava perché erano cotti di rakija.
Imparammo a muoverci. A correre come lepri nelle zone scoperte: le fessure tra i palazzi, gli incroci da cui si vedevano le colline. (…)
Imparammo che le tregue erano finte, duravano poche ore e poi ricominciava la musica. Le strade cambiavano faccia ogni giorno, si sfaldavano e si ricomponevano miseramente. Ora blocchi di cemento, carcasse di tram, teli di plastica tirati tra un palazzo e l’altro tagliavano la visuale agli sniper. La città aveva cominciato ad organizzarsi con armi di fortuna e volontari. Truppe regolari della Difesa territoriale bosniaca combattevano nelle trincee. E truppe di malviventi approfittavano della situazione, saccheggiavano le case dei sarajeviti serbi, professori, piccola borghesia. Era cominciato il commercio della guerra, degli espropri, del mercato nero. Ceffi stravaganti ti assediavano per venderti di tutto, per cambiare valuta. I blindati bianchi delle Nazioni Unite stazionavano inerti come polli intorpiditi dal sole.
Eppure di notte continuava la vita, si sopravviveva nelle cantine e nei locali a colpi di battute amare. La birra c’era ancora, la mitica Sarajevsko pivo, però aveva cambiato sapore, era aspra, strana, come quell’umorismo. C’era la speranza che tutto sarebbe finito prima dell’estate. (…)
Mladjo il pittore adesso ritagliava nel compensato, dalle ante degli armadi, sagome umane, le colorava e poi le lasciava in mezzo alla strada, per sbeffeggiare gli sniper. Avevano tutti voglia di divertirsi, di non darla vinta agli animali dei monti. (…)
Di notte rasentiamo i muri. Insieme a noi altre ombre umane filano via silenziose come alghe nel mare. Ci muoviamo in un acquario nero. Non c’è luce, solo candele spente. Il buio è totale. La luna è la lanterna di un fantasma. La luce rossa di un proiettile al fosforo ci illumina per qualche secondo, poi cade, come una stella precipitante.
Le vittime di Ulica Vase Miskina
La gente camminava tranquilla, quella mattina, donne con i foulard, uomini con la cravatta. Bisognava mostrare il pugno chiuso con il medio fuori a quelli lassù, al club delle tre dita cetniche. E’ un messaggio per loro, infilatevi nel culo i vostri fucili di precisione. Quei foulard, quei passi ordinati, stavano lì a dire quello. A testimoniare che la vita continuava. La clinica ostetrica era stata colpita, l’edificio di Oslobodjenje era ormai un bersaglio per tiratori sfaccendati. Chi non aveva niente da fare gli sparava un colpo. La città pareva vuota, poi si rianimava, come un pascolo. Sul muro sotto casa era apparsa una scritta:
NON SIAMO MORTI STANOTTE.
La guardavo tutte le mattine dalla finestra, mi chiudeva la gola.
C’era stata buriana il giorno prima, era bruciato lo stadio Zetra, nel villaggio olimpico, si era liquefatto quel cappello di metallo così caro a tutti. I pompieri e i volontari si erano affannati per ore. Ormai la gente sapeva che dopo le grandinate peggiori la montagna taceva per un po’. Era stato ordinato il cessate il fuoco, senza più revoche, erano state messe sanzioni a quelli di Belgrado. Non si poteva non fare la fila. Per l’acqua, per il pane, per le medicine… si rischiava la ghirba a star lì tutti insieme come piccioni, ma quella era una giornata di fiducia, di donne che chiacchieravano sul marciapiede, di ragazzini che scappavano tra le gambe. C’era il sole. Era in via Vase Miskina, dove adesso c’è una delle rose più grandi. Anche la piccola porta c’è ancora, non vendono più il pane ma c’è.
I nomi sono scritti, piccoli, ordinati, accanto alla stella e alla luna musulmane, accanto ad un versetto del Corano.
Erano donne, uomini, bambini che giocavano… E non sapevano che sarebbero stati incisi sul muro, fotografati dai cellulari dei turisti all’infinito. Era la fila per il pane, c’era un buon odore. Era una giornata di fiducia, di lepri che mettono la testa fuori. Era fine maggio, le rondini becchettavano le briciole di chi smozzicava il pane per strada. Qualche fortunato ci fu. Gente più svelta, più tempestiva, che s’era messa in fila presto, prima degli altri, e se n’era appena andata con il suo filone di pane o una di quelle pagnotte senza lievito e senza sale. Ma ci fu anche qualcuno che rimase per caso, che si mise a parlare, a scambiare due battute con un conoscente. Caddero tre granate, due per strada, una al mercato lì davanti. E tutti quelli che c’erano fecero un viaggio, schizzarono. La piazza divenne una scena teatrale, stracci rossi ovunque. Avrebbe fatto il giro del mondo, quello schifo rosso. Quel pane zuppo di sangue.
“Non credevo che un bambino avesse tanto cervello” disse un vecchio uomo aggrappato a un bastone. “Non finiva più di uscire, quel cervello.”
Una donna era seduta sul muretto, non piangeva. Stringeva due figli morti, uno di qui e uno di là, come fiori recisi. (…)
Gojko quel giorno sembrava impazzito, era corso subito lì, urlava ai giornalisti di filmare…
“Così adesso si accorgeranno di noi!”
Raccolse una pagnotta, la spezzò, la mollica era intrisa di sangue rosso come sugo. La offrì ai giornalisti.
“Ecco, tenente e mangiatene tutti, questo è il nostro sangue…”
Poi schizzò via, disperato come Giuda che va ad impiccarsi.
Più tardi la città taceva. Era stata una giornata di fiducia. Erano arrivati quei giovani con le tute mimetiche e i caschi azzurri come il cielo… la gente si era illusa che fossero angeli custodi, che fosse finita. Invece adesso l’ospedale era pieno di carne da ricucire. Anche la montagna taceva. Le televisioni del mondo non facevano che passare quel nastro truculento. E gli animali lassù s’erano rintanati a bere rakija per festeggiare la fama.
Partimmo due giorni dopo. Era tornata la corrente, tutte le lavatrici di Sarajevo si erano messe a funzionare nella notte. Mi sembrò un buon segno. Raggiungemmo Zagabria su un pullman che aveva addirittura l’aria condizionata, era uno di quelli che solitamente portavano i pellegrini a Medjugorje. Da lì riuscimmo a prendere tranquillamente un aereo. Volevo dire tante cose a Diego, gli dissi: “Un piatto di spaghetti, ci pensi?”.
Diego sorrise.