Boss o non più Boss?

Creato il 13 maggio 2013 da 79deadman @79deadman


Per celebrare, di striscio, l’imminente arrivo dei Bruce Springsteen su suolo italiano per quattro tappe del suo nuovo (ennesimo) tour con la E-Street Band, propongo un articolo del critico britannico Simon Frith. Non oso inoltrarmi di persona nella disamina di un personaggio così mastodontico e complesso come il Boss in quanto non posso certo dire di conoscerlo a fondo, avendo ascoltato, nella sua ormai sterminata discografia, solo i due o tre titoli considerati imprescindibili. Farò dunque solo un breve cappello introduttivo all’articolo che qui integralmente riporto (violando, tra l’altro, svariate norme di copyright…) Il brano di Frith, datato 1987, fu scritto mentre era in distribuzione il mastodontico Live/1975-85. L’autore procede in maniera quasi hegeliana: tesi, antitesi, sintesi, qui ribattezzate falso, vero, conclusioni. Tutto quanto ruota attorno a lui, al Boss per antonomasia. Più che giudizi tout-court, Frith si propone di offrire chiavi di letture personali, meditate, non sempre fuori dal coro ma sicuramente ragionate e ben ponderate. I fan di Bruce facciano attenzione, perché qua e là potrebbero incappare in frasi piuttosto… “esplicite”: ma abbiate pazienza e vedrete che un assoluzione di fondo non manca. Tutto quanto il mondo della musica leggera segue regole precise, si direbbe inderogabili. Non si può né pretendere da un singolo che si erga ad unico paladino immacolato della Verità, né che tutte le piaghe e le colpe di un sistema finiscano per ricadere su di lui solo perché è tra quelli che hanno avuto maggiore successo. E attenzione: essendo la musica rock non estranea alle dinamiche di mercato, la massima popolarità artistica (quella che tutto sommato piace ai fan, quella che regala emozioni…) è spesso accoppiata ad un enorme successo economico. Ma la diatriba che nasce attorno a rockstar di lunga carriera e gonfio portafoglio è sempre la stessa: fanno sul serio? Ci vendono Arte o contratti con le major? Lo fanno per avidità, ispirazione, routine? Insomma… sono autentici o no? Una questione che in realtà, a chi si propone di essere solo ascoltatore, fruitore del flusso musicale,  nemmeno dovrebbe interessare più di tanto. Come nota giustamente Frith: “la musica non può essere vera o falsa, può soltanto riferirsi a convenzioni di verità e falsità”. Ma certo per il fan, l’appassionato, oltre che di musica, del personaggio, dell’uomo tanto pubblico quanto privato, la domanda è di quelle cruciali. Una cosa credo si possa dire: Springsteen, Madonna, Rolling Stones, Jackson ed Elvis (finchè erano in vita) non sono più solo privati cittadini che si esprimono creativamente; sono vere e proprie aziende multinazionali che danno lavoro a centinaia di persone. E sono forzatamente aziendalisti. Mi trovo abbastanza d’accordo con Frith quando scrive: “ciò che è significativo nell’era postmoderna non è se Springsteen sia la cosa autentica, ma come possa surrogare la convinzione che in qualche modo, da qualche parte, esistano cose autentiche”. La purezza, la sincerità, la verità dell’espressione artistica non stanno in questo mondo, ma nell’idea dell’appassionato e dell’ascoltatore. Ed è importante che siano e restino lì, altrimenti i frantuma tutto. Platonismo Rock? Forse, ma il ragionamento mi soddisfa abbastanza, dopotutto. Detto ciò, a voi l’articolo. Una sua versione in pdf è scaricabile dal link qui sotto. Il grassetto è mio ed ha la sola funzione di aiutare coloro che non si dedicheranno ad una lettura integrale a soffermarsi su quelli che, a parer mio, sono i passaggi salienti.
Buona lettura!

L’autentico - Bruce Springsteen di Simon Frith
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Introduzione
Suppongo che verso il Natale del 1986 Bruce Springsteen guadagnasse quotidianamente più di qualunque altra pop star - più di Madonna, più dì Phil Collins o Mark Knopfler, persino più di Paul McCartney; la rivista «Time» ha calcolato che abbia guadagnato sette milioni e mezzo di dollari nella prima settimana di distribuzione del suo long playing Live. Il cofanetto di cinque dischi raggiunse il vertice della classifica di vendita americana (si presume che abbia raggiunto un milione di copie il primo giorno, con un introito lordo di cinquanta milioni appena "fuori dalla porta") restandovi per l’intero periodo natalizio. Fu il best seller nazionale per i mesi di novembre e dicembre, quando si vendono più dischi che nel resto dell'anno. Persino in Gran Bretagna, dove le classifiche invernali sono dominate dalle antologie pubblicizzate in televisione, il cofanetto di Springsteen, in vendita a venticinque sterline, raccolse più denaro dei singoli album di compilations, che pure erano posti in vendita con stretti margini di profitto (la Cbs calcola di realizzare il 42% delle vendite annuali nel periodo natalizio). A spasso per Londra, da Tottenham Court per la Oxford Street verso Piccadilly ai primi di dicembre, davanti ai tre simboli delle corporations del rock — i grandi magazzini Virgin, Hmv e Tower — ognuno dei quali afferma di essere il più grande negozio di dischi al mondo, non vedevo altro che cofanetti dì Springsteen, in alte pile a fianco dei registratori di cassa, la scorta più sicura della stagione. Il successo di vendita a quel livello — i cofanetti erano accumulati a Sidney come a Toronto, e nelle aree commerciali delle città svedesi, danesi, tedesche occidentali, olandesi e giapponesi — ha un effetto devastante sulla parte restante del ciclo produttivo del rock. Il telegiornale americano mostrava le immagini degli autotreni che giungevano a rifornire i negozi newyorkesi dai magazzini della Cbs — anche quelli immediatamente circondati da file di persone, cosicché negli Stati Uniti Springsteen veniva freneticamente venduto dai pianali degli automezzi, come fosse una inattesa partita di Levis’ in Urss. A poche ore dalla sua uscita, il cofanetto di Springsteen inceppava l’organizzazione della Cbs. In America la compagnia annunciò che non avrebbe evaso gli ordini del catalogo per quattro mesi, perché l’intera capacità produttiva era destinata a Springsteen (e anche così andò rapidamente esaurita la versione in compact disc del cofanetto — ne erano state realizzate soltanto trecentomila, una quantità insufficiente). In Europa la compagnia dedicò uno dei suoi tre impianti di stampa alla produzione esclusiva del cofanetto. Springsteen dominava il mercato essendo l'unico prodotto della Cbs disponibile ovunque. Indipendentemente dalle cifre di vendita definitive (dopo Natale le rese dei cofanetti dai negozi alla Cbs furono altrettanto impressionanti delle vendite iniziali), è già evidente che Bruce Springsteen end the E- Street Band Live è un disco sensazionale, un risultato commerciale da porre sullo stesso piano di Saturday Night Fever o Thriller di Michael Jackson. Va altresì tenuto presente che un disco dal vivo è meno costoso da produrre che uno nuovo in sala d’incisione (e Springsteen è già stato ben ricompensato per quelle canzoni dalle vendite dei dischi precedenti e dagli incassi degli spettacoli sempre esauriti delle tournée). Per spingere le vendite di quel disco, d’altra parte, la Cbs non aveva bisogno di costose bardature o promo video, né di pubblicità attraverso i media; poiché il cofanetto di Springsteen era in se stesso un avvenimento (l’unico precedente del pop cui riesco a pensare è il White Album dei Beatles del 1968), generò la sua propria pubblicità in quanto “avvenimento” — le stazioni radio facevano a gara per trasmettere il maggior numero di brani il più a lungo possibile, i negozi rivaleggiavano nel dare a Bruce più spazio in vetrina, i quotidiani si superavano l’un l’altro nelle congetture sui suoi veri profitti. Il cofanetto di Springsteen divenne, in altri termini, il supremo oggetto del sogno capitalistico, un bene di consumo che si doveva possedere (invece che usare per necessità). In conclusione della vicenda Springsteen è peculiare non il segno di una brillante campagna di vendite, ma il suo carattere invisibile. Altre superstar pubblicano registrazioni dal vivo per Natale (ad esempio, i Queen) e i critici scherniscono il loro opportunismo; altre star riciclano i loro vecchi successi (ad esempio, Bryan Ferry) e i fan si preoccupano dell’attuale mancanza di ispirazione. In quelle tristi storie di avidità e orgoglio, è Springsteen a dare spesso la misura dell’integrità musicale, a rappresentare il modello di un artista rock che non può essere messo in discussione in termini di calcolo economico. In breve, il bene di consumo di maggior successo del momento, il cofanetto dì Springsteen dal vivo, conferma il principio che la musica non dovrebbe essere un bene di consumo; è il disdegno profondo del successo a dare tanto successo a Springsteen.  Come se la sua presenza su ogni giradischi, registratore e riproduttore dì compact aggiornato, in ogni soggiorno elegante, siano ciò che consente a un’affluente generazione rock che sta invecchiando di mantenere il contatto con le sue "radici". Ciò che è significativo nell’era postmoderna non è se Springsteen sia la cosa autentica, ma come possa surrogare la convinzione che in qualche modo, da qualche parte, esistano cose autentiche.
Falso
Considerate le seguenti affermazioni: Bruce Springsteen è un miliardario vestito da operaio. Jeans sdruciti, maglietta, una fascia fra i capelli perché non gli cadano sugli occhi — è una tenuta da lavoro, e costituisce un aspetto significativo del fascino dì Springsteen, che va visto come un artista che lavora per guadagnarsi da vivere. La sua popolarità è imperniata sulle esibizioni dal vivo e, più specificamente, sulla sua spettacolare energia: Springsteen lavora sodo, e la sua fatica - a nostro beneficio - è evidente. Produce materialmente la musica, come un lavoratore manuale. Il suo abbigliamento è dichiaratamente funzionale e pratico (come gli indumenti degli sportivi) —— comodi jeans (lisi) per muoversi agilmente, una maglietta per sudare liberamente, uno straccio da meccanico per detergersi la fronte. Ma vi è di più, riguardo a quegli indumenti. Springsteen indossa abiti da lavoro anche quando non lavora. La sua immagine privata, le pose delle copertine dei dischi e delle interviste, persino le istantanee “fuori servizio" dei paparazzi, esprimono la medesima realistica praticità (l’unica volta che si è visto Springsteen ben vestito “in privato" è stato in occasione del suo matrimonio). Springsteen non indossa abiti adeguati al suo effettivo status economico e alle sue risorse (a confronto di altre pop star), ma neppure riserva l’abito migliore per le grandi occasioni, come i veri operai — non lo si è mai visto tirato a lucido per una serata elegante. E come se non si potesse accettare il suo eccesso o il suo appagamento se non per noi, come un artista per il suo pubblico. Per lui non c'è differenza fra lavoro e divertimento, fra normalità ed eccezionalità. Poiché l'artificiale “Springsteen", la star, si presenta senza orpelli, non potrà mai esservi sospetto che si tratti soltanto di una finzione (come lo è stato Elvis, e come è Madonna). Non c’è un altro Springsteen, né più vero né più artificiale, da vedere. Springsteen è un padrone che si presenta come un dipendente. Mi ha sempre stupito che fosse soprannominato “The Boss", ma è sottinteso che si tratta di una definizione affettuosa, un modo cameratesco per la E-Street Band di render merito alla sua straordinaria energia. In realtà “boss" designa adeguatamente il loro rapporto economico - Springsteen da lavoro al suo gruppo; lui detiene i contratti discografici, il controllo sui long playing e sul repertorio dei concerti, compone le canzoni e sceglie i vecchi successi da reinterpretare. A prescindere dal contributo dei musicisti al suo successo (smaccatamente riconosciutogli), è lui che riscuote i diritti sulle composizioni/esecuzioni, è lui che potrebbe, in linea di principio, licenziare il personale o, come ogni buon datore di lavoro, premiare il gruppo con generose gratifiche dopo ogni spettacolo o disco andato esaurito. E naturalmente dà lavoro anche agli assistenti di palco, a un manager, a un giornalista e a un segretario; ormai il suo giro d’affari è di miliardi annui. Può esprimere i sentimenti di "piccoli" uomini e donne che combattono contro le distanti direzioni aziendali, ma è lui stesso una corporation. Springsteen è un adolescente di trentasette anni. Da vent’anni prosegue una carriera di enorme successo, è un professionista, un uomo sposato abbastanza avanti negli anni da essere a sua volta padre dj adolescenti, ma si mostra ancora come un ragazzo, curioso di sapere. che cosa gli riservi la vita, reso inquieto dagli scontri con l’autorità degli adulti. Presenta le sue canzoni con ricordi personali - la sua vita da ragazzo, le discussioni col padre (la madre è menzionata di rado) - ma come esecutore è evidentemente partecipe di quelle emozioni. Springsteen non rimpiange né rinnega il suo passato; da adulto, lo vive tuttora. Springsteen è un timido esibizionista. È in effetti uno degli artisti più sexy che il rock’n’ roll abbia mai avuto - una parte considerevole del pubblico dei suoi concerti semplicemente lo contempla, senza distogliere lo sguardo dal suo corpo, pubblico che lui dal palco incanta per la sicurezza che dimostra. Nonostante tutto ciò, il suo personaggio interpreta una gioventù coraggiosa e gauchista di un'altra epoca. Springsteen è una superstar per amico. Entra nella nostra esistenza come star discografica, come suono alla radio, come presenza sul video e, in questo periodo, come argomento di pettegolezzi da rotocalco. Persino negli spettacoli dal vivo pare più accessibile nei primi piani degli schermi giganti posti intorno al palco che come “materiale" figura indistinta in lontananza. E tuttavia resta l'artista rock il cui spettacolo crea nel modo più convincente un senso di comunità (da cui egli stesso dipende). La “registrazione" di maggior successo di Springsteen è “daI vivo". L’obiettivo che il cofanetto si propone è la riproduzione di un concerto, di un avvenimento, e se per altri musicisti cinque dischi sarebbero eccessivi, per Springsteen è una prova ulteriore del realismo dell’album — la sua durata è all’incirca quella di uno spettacolo. Si può sollevare un'interessante questione di fiducia al riguardo. Non dubito che quelle esibizioni si siano svolte in diretta, che gli applausi siano scrosciati davvero, ma questo è nondimeno un avvenimento falso, un concerto assemblato da esibizioni diverse (e altri missaggi), montati e bilanciati per simulare un’incisione in diretta (che ha diverse convenzioni acustiche di un vero spettacolo). I fan di Springsteen lo sanno bene, naturalmente. Il piacere di questo cofanetto non viene dal riportarci nel luogo dove siamo stati, ma dal prefigurare qualcosa di ideale. Descrive ciò che noi intendiamo per “Springsteen dal vivo", e ciò che lo rende “reale" in tale contesto non è la sua trasparenza, l’idea che lui sia il personaggio che recita, ma è la sua arte, la sua abilità ad articolare l’idea adeguata di realtà.
Vero
Il termine ricorrente nelle discussioni riguardo a Springsteen, utilizzato da fan, critici e fan in funzione di critico, è "autenticità". Con ciò non si intende che Springsteen sia autentico in modo diretto — esprime semplicemente se stesso — ma che egli rappresenti "l’autenticità". E questo il motivo della sua importanza: egli è garante dei valori essenziali del rock’n’roll nonostante quei valori diventino sempre più difficili da sostenere. In un’epoca in cui il rock è la colonna sonora della pubblicità televisiva, in cui le tournée dipendono da accordi di sponsorizzazione, in cui la promozione attraverso i video ha cancellato la distinzione tra il fare musica e il vendere musica, Springsteen afferma che la musica, nonostante tutto, fornisca ancora alla gente un modo per definire se stessi contro la logica corporativa, un linguaggio con cui esprimere speranze e paure quotidiane. Se Bruce Springsteen non esistesse, i critici rock americani avrebbero dovuto inventarlo. In certa misura è ciò che hanno fatto, in prima persona (Jon Landau, il critico più importante di  “Rolling Stone” negli ultimi  anni Sessanta, è ora il suo manager) o indirettamente (Dave Marsh, biografo ufficiale di Springsteen, è il più viscerale e diffusamente letto fra i critici rock degli anni Ottanta). Sono pochi, a dire il vero, i critici rock americani che non abbiano celebrato Springsteen, ma il loro compito è stato non tanto quello di spiegarlo ai fan potenziali, difendendo la fase in cui passò dal culto alla celebrità di massa, quanto quello di spiegarlo allo stesso Springsteen. Lo hanno considerato, secondo una particolare interpretazione della storia del rock, non come il “nuovo Dylan" (la sua originaria etichetta commerciale), ma come la "voce della gente". Il suo compito è di portare il testimone che ha ricevuto da Woody Guthrie, e l’intento dei vecchi brani accuratamente riproposti (This Land Is Your Land di Guthrie, successi di Presley e Berry, classici del beat inglese e War di Edwin Starr) non è solo quello di accreditarlo come fan tra altri, ma di identificarlo con uno specifico progetto musicale. Lo stesso Springsteen dichiara dal palcoscenico di rappresentare un’autentica tradizione popolare (come se combattesse gli spuri sentimenti commerciali di un Irving Berlin). Essere tanto “autentico" impone un considerevole numero di iniziative. Innanzitutto, l’autenticità va definita contro l’artificio; i termini acquistano significato soltanto se in opposizione l’uno all’altro. E’ questa l’importanza dell’immagine di Springsteen - rappresentare il “crudo" in opposizione al "cotto". La sua presenza scenica leale, la sua frugalità, si comprendono in riferimento agli eccessi dello show business, ai sofisticati spettacoli del pop cabarettistico e del soul (e al convenzionale rock’n’roll da stadio) - Springsteen è autentico per contrasto. Anche l’espressione poetica è diretta; la sua abilità di compositore non è contraddistinta da un linguaggio “lirico" esoterico o idiomatico, come nella tradizione del cantante/compositore folk-rock che discende da Dylan (e dai suoi primi lavori), ma da vivide immagini e metafore che elabora dal i linguaggio corrente. Qui la posta in gioco non è l’autenticità dell’esperienza, ma l'autenticità dei sentimenti; ciò che importa non è se Springsteen sia passato lui stesso attraverso tali esperienze (la noia, l’aggressività, l’estasi e la disperazione) ma che sappia come agiscono. Lo scopo dei suoi aneddoti autobiografici non è di rivelare se stesso, bensì di radicate la sua musica in un’esperienza empirica. Al pari di artisti in altri settori dei media (narratori, registi) Springsteen è attento a fornire alle emozioni (il dato imprescindibile del rock’n’roll) un assetto narrativo, situandole nello spazio e nel tempo, e riferendole alle situazioni che pretendono di chiarire o confondere. Non gli interessano le emozioni astratte, le sensazioni vaghe né tantomeno le valutazioni morali. Semplicemente è un narratore, che ricorre a tecniche classiche per rendere credibili i suoi racconti. La realtà viene descritta secondo convenzioni fissate per la prima volta dai veristi del diciannovesimo secolo — il rifiuto di trattare le condizioni sociali in termini sentimentalistici, e l’impegno a descrivere in modo sentimentalistico la natura umana. Le canzoni di Springsteen (come i racconti di Zola) si occupano quasi esclusivamente delle classi lavoratrici, con le loro vicende di povertà e di insicurezza, e le conseguenze della debolezza e della delinquenza; si soffermano sul lato oscuro del sogno americano;  contrappongono agli impulsi utopici la mancanza individuale di opportunità per fare molto più che tirare avanti; trovano nel sesso l’unica opportunità di passione (e di tradimento). I personaggi di Springsteen, vittime e carnefici, sconfitti e collerici, sono considerati con affetto, le loro speranze con rispetto e i loro insuccessi giustificati dalle circostanze. E’ il suo realismo a rendere politicamente ambiguo il populismo di Springsteen. Le sue affermazioni sono certamente anticapitalistiche o, almeno, critiche degli effetti del capitalismo — come individuo sociale e come artista di successo Springsteen ha rifiutato la sottomissione alle leggi del mercato, mostrando costante e generosa solidarietà verso gli sconfitti del sistema, per i lavoratori in sciopero iscritti al sindacato e per i disoccupati, per mogli e figli che vengono picchiati. Contemporaneamente, però, la sua attenzione al destino individuale, l’intrinseca potenza con cui narra dei loro sogni irrealizzabili (ma che lui stesso conserva) offre uno spiraglio alla sua appropriazione, che non viene sfruttata soltanto dai politici come Reagan ma, ciò che più conta, da commercianti e inserzionisti pubblicitari, i quali lo utilizzano per vendere i loro prodotti come una soluzione di qualche genere per i problemi che denuncia. Questo è il paradosso del populismo del mercato di massa: mentre le canzoni di Springsteen suggeriscono che qualcosa della nostra vita ci è sottratto, il suggerimento della Cbs è che possiamo colmare il vuoto con un disco di Bruce Springsteen. Nonostante tutto l'impegno di Springsteen nelle cause più impellenti, dalla sua musica viene un soffio di nostalgia e un’aria di fatalismo. I suoi racconti dicono di speranze sul punto di estinguersi, trasmettono un senso del tempo che passa sfuggendo al nostro controllo, indicano che i nostri sogni sono destinati a rimanere tali. Il conservatorismo formale della musica avvalora il conservatorismo emotivo dei testi: cosi va il mondo, canta, e nulla cambia davvero. Ma c’è un altro modo per descrivere il realismo di Springsteen. Intende celebrare il consueto, non lo straordinario. Ancora una volta il punto non è che Springsteen sia ordinario o finga di esserlo, bensì che renda merito all’ordinarietà, cavando l’intensità da esperienze abitualmente considerate banali. La funzione del pop è sempre stata quella di trasfigurare l'ovvio, ma tale proposito fu in qualche misura inficiato dall’espansione del rock negli anni Sessanta, con le sue pretese artistiche e poetiche, la sua creazione di figure di culto, il suo misticismo heavy metal. Lo stesso Springsteen esordì con un paio di efficaci long playing discorsivi, ma da allora si è dedicato in forme significative all'espressione del senso comune. La più notevole abilità di Springsteen sta nella sua capacità di drammatizzazione degli avvenimenti quotidiani - persino il suo spettacolo dal vivo è un dilatato rock show da pub. La E-Street Band, professionisti di alta classe, suona con una sorta di entusiasmo amatoriale, un’affezione reciproca in stridente contrasto con il disprezzo bohémien del loro lavoro (e del loro pubblico) che è stato un riflesso degli spettacoli rock "artistici" a partire dai Rolling Stones e dai Doors. I musicisti di Springsteen rappresentano tutti i gruppi amatoriali e semiprofessionistici che si sono aggregati in nome dell'ardente speranza del successo. Il suo senso della comunità spiega altresì il lato fisico del fascino di Springsteen. La sua sessualità non è esibita come qualcosa di eccezionale, come forma di potenza, ma è codificata nei suoi movimenti “natura- li", in funzione di ciò che canta e suona. Il suo corpo diventa “sexy" - fonte di eccitazione e ansia - nei suoi gesti consueti; il suo fascino non è definito in termini di glamour o sogno. La prova essenziale dell’autenticità di Springsteen, in altre parole, è il suo sudore, la sua dimostrazione di energia. Il suo corpo non assume pose, non appare un oggetto di consumo, ma è attivo, si mostra un oggetto di esaurimento. Quando i componenti della E-Street Band si riuniscono al termine di uno spettacolo per l’inchino finale, con le braccia sulle spalle l’uno dell’altro, esausti e rilassati, l’analogia con la prestazione sportiva è evidente: è una squadra che ha vinto l'ultimo incontro. L’importante è che ognuno di tali incontri sia percepito come reale, che non ci siano basi preregistrate, né strumenti “finti", che i musicisti abbiano suonato fino al limite. In ciascuno degli spettacoli di Springsteen ai quali ho assistito vi è il momento in cui Clarence Clemons è al centro dell’attenzione; in quel momento è lui la vera star. E’ fisicamente più grande di Springsteen, suona più forte ed è vestito in modo più vistoso. E lui è sassofonista, colui che rende conto ogni sera nel modo più esplicito della relazione fra sforzo umano e musica umana. Essere autentici e suonare in modo autentico è la stessa cosa in un contesto rock. La musica non può essere vera o falsa, può soltanto riferirsi a convenzioni di verità e falsità. Considerate le seguenti affermazioni. La batteria tonante nelle canzoni di Springsteen dà ai suoi racconti il loro senso di inarrestabile moto, disegna i confini entro i quali le vicende accadono. Il rapporto fra spazio e tempo è il segreto del grande rock’ n’ roll, e Springsteen impiega altri congegni classici per realizzarlo - una combinazione di pianoforte e organo, ad esempio (come facevano The Band e molti gruppi soul), di modo che la linea melodica descrittiva e i suoni ritmici d’atmosfera si scambino continuamente di ruolo. La E-Street Band produce musica come gruppo, ma un gruppo in cui distinguiamo ciascuno strumentista. La nostra attenzione è cioè attratta non dal suono risultante ma dal processo esecutivo. Ciò è in parte il frutto del rifiuto di considerare “solista" uno strumento rispetto agli altri (è il motivo per cui Nils Lofgren, chitarra “solista", appariva fuori posto nell'ultima formazione per la tournée della E-Street Band); in parte per una specifica ragione di business musicale — il gruppo è “coeso", ciascuno tende a realizzare il medesimo fine ritmico, ma "elastico", ogni musicista decide autonomamente come raggiungerlo (uno dei motivi per cui gli strumenti elettronici non funzionerebbero — sono troppo lineari, troppo precisi). Tutti i musicisti di Springsteen, anche i coristi e i percussionisti aggiunti, hanno una voce individuale; sarebbe inconcepibile per lui presentarsi con un’anonima sezione d’archi. Le strutture armoniche e, ancor più significativamente, le linee melodiche della musica di Springsteen fanno consapevole riferimento al rock'n' roll in se stesso, ai suoi convenzionali giri armonici, alla ripartizione dei ruoli nei gruppi, alle comprovate forme espressive di gioia e di tristezza. Springsteen stesso è una stella del rock'n’roll, non un cantante confidenziale o un cantautore. La sua voce si sforza di farsi ascoltare, deve urlare sopra gli strumenti che al tempo stesso lo sostengono e competono con lui. Per quante volte li abbia provati, i suoi passaggi suonano sempre come creati in quell’istante. Molte delle canzoni più coinvolgenti di Springsteen non hanno destinatario (nessun “tu"), ma (come numerose canzoni dei Beatles) si riferiscono a una terza persona (un racconto narrato di qualcun altro) o riguardano un “io" che medita a voce alta, che spiega la propria condizione in modo impersonale, in una sorta di epica individualizzata. Ascoltare tale epica è un'attività pubblica (piuttosto che un sogno privato), motivo per cui i concerti di Springsteen paiono ancora momenti collettivi.
Conclusioni
In uno dei suoi monologhi Springsteen ricorda come i suoi genitori non abbiano mai mostrato molto entusiasmo per le sue ambizioni musicali - volevano educarlo per qualcosa di sicuro, come legge o ragioneria: “Volevano che ottenessi qualcosa per me; non capivano che io volevo tutto!”. E’ un’affermazione che potrebbe esser fatta soltanto da un americano, e per comprendere l’importanza e il successo di Springsteen dobbiamo tornare al vero problema che gli è di fronte: il destino individuale dell’ l’artista nel capitalismo. In Europa la critica artistica della commercializzazione universale è stata generalmente condotta in termini romantici, in una posizione di disgusto bohémien tanto per le masse quanto per i borghesi, in nome della superiorità dell'avanguardia. Negli Stati Uniti si ricorre all'anticapitalismo populistico, la tradizione dell'artista come uomo (raramente donna) comune, che scaglia la verità della natura contro la falsità sociale, i valori dei pionieri contro la routine della burocrazia. Quella tradizione (da Mark Twain a Woody Guthrie, da Kerouac ai Credence Clearwater Revival) è sottesa al messaggio e all’immagine di Springsteen. E quella tradizione che gli consente di utilizzare la scontata iconografia della strada, del fiume, dello stesso rock’n’ roll come prova di sincerità. Nessun musicista inglese, neppure qualcuno con il profondo amore per le forme musicali americane come Elvis Costello, potrebbe trattare quei temi senza un po’ di senso dell’ironia. Ancora, il populismo di Springsteen si rivolge all’esperienza del capitalismo propria di ciascuno. Produce musica con le speranze accese e quelle frustrate, offrendo una sensazione di valore individuale che non è determinata né dalle leggi di mercato (e dalla ricchezza) né da criteri estetici (e dal capitale culturale). E’ la specifica considerazione americana dell’eguaglianza che gli consente di trascendere le differenze di classe e di status che restano radicate nella cultura europea. Il problema è che il confine tra populismo democratico (l'affermazione che tutte le esperienze e i sentimenti individuali hanno eguale importanza, hanno valore drammatico e possono essere trasformati in arte) e populismo commerciale (l’affermazione che il consumatore ha sempre ragione, che il mercato definisce il valore culturale) è assai sottile. Le pile di cofanetti dei dischi di Bruce Springsteen nei negozi europei paiono un tributo all’autenticità rock, più che un pedaggio pagato alle corporations. “We are the world!” cantava il coro di Usa For Africa, e ciò che era concepito come un’affermazione di comunità planetaria si rivelò una minaccia di dominazione internazionale. “Born in the Usa!” cantava Springsteen nella sua ultima trionfale tournée, con la bandiera a stelle e strisce ondeggiante sul palco, e quello che era inteso come canto di protesta contro la colonizzazione reganiana del sogno americano fu preso da ampi settori del suo pubblico americano per patriottismo opportunistico (in Europa la bandiera dovette essere ammainata). Che ci piaccia o no, che gli piaccia o no, Springsteen è un artista americano - la sua “comunità" avrà sempre le stelle e strisce che ci sventolano sopra. Ma allora il rock’n` roll è la musica americana, e il Live 1975-1985 è un monumento: come tutti i monumenti celebra (e compiange) una scomparsa in questo caso l'idea stessa dì autenticità.
1987
L’articolo tradotto in italiano è apparso sul volume “Il Rock è finito” di Simon Frith, edizioni EDT, 1990
P.S.: postilla semiseria per concludere. Non ho potuto fare a meno, leggendo, di notare quanti tratti in comune, dal punto di vista sociale più che musicale, abbia il profilo del Boss tratteggiato da Frith con il nostro piccolo eroe Vasco Rossi. E’ solo una mia deviazione personale? O forse, su scala ridottissima (dovuta anche ad idioma ed anagrafe), anche il Vasco Nazionale ha attinto a quegli stessi archetipi di cui si è nutrito per anni il Boss? Se mai fosse così, chi adora il Boss dovrebbe adorare anche Vasco? Qual è la differenza? Ah, già, dimenticavo: la musica!

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