Non una storia vera, non un documentario, ma un film nel pieno senso della parola, scritto a tavolino, rimaneggiato anno dopo anno in base ai cambiamenti della Storia e della Società, per raccontarci però la vita, quella vera, quella reale. Ogni anno Linklater ha dedicato circa tre giorni per girare una sequenza o poco più, riunendo i suoi attori e vedendoli cresciuti, invecchiati. Il tempo passa, non c’è trucco e non c’è inganno, né controfigura o cambio d’attore. Con Boyhood il cinema non è mai stato così vicino alla vita.
Un film strepitoso che però non si dota di toni epici, né patriottici, né moralistici. Boyhood è un film d’apparente banalità a livello di plot, ma di grande sostanza nel modo in cui si esprime sul grande schermo. Un prodotto d’invidiabile omogeneità e freschezza, dove lo sguardo di Linklater rimane miracolosamente immutato negli anni, così come lo stile registico e il ritmo (che non fa affatto pesare le oltre 2 ore e mezza di film). In quei dodici anni c’è tutta la crescita di un bambino che si fa adolescente e tutta l’America di oggi e di ieri (il passaggio da Bush a Obama, il porto d’armi, i problemi d’alcolismo, il bullismo nelle scuole, la caccia al terrorismo, ecc.) .
Boyhood colpisce per la sua genuinità, la sua forza è la semplicità, la purezza di sguardo con cui fa sembrare stra-ordinario l’ordinario. Si ride, ci si spaventa, si entra in empatia con i personaggi, si sperimenta il brivido della vita tramite lo schermo. E Linklater si dimostra così perfetto e geniale da chiudere il suo film nell’attimo giusto, cogliendo o lasciandosi cogliere da quel carpe diem di cui parlano i due ragazzi on screen, con quel mezzo sguardo in macchina di Mason (il protagonista) che tradisce e ribadisce come sia cinema, e non la vita vera, quella che abbiamo visto. Ma ne siamo davvero sicuri?
Anche per questo Boyhood è un vero capolavoro, uno dei film più importanti mai realizzati in oltre un secolo di settima arte.
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