Sale agli onori delle cronache nel 1968 quando fu condannato (unico caso in Italia) per il reato di plagio, introdotto dal Codice Rocco nel periodo fascista.
In realtà, nel pieno della contestazione e della rivoluzione sessuale, Aldo Braibanti diviene il caprio espiatorio di uno scontro generazionale: anni prima della nascita del movimento gay (quando anche per la sinistra l’omosessualità era una “degenerazione piccolo-borghese”), Braibanti subisce un processo politico che vede sul banco degli imputati il suo orientamento sessuale (così come per lo scandalo dei Balletti Verdi qualche anno prima) e su quello dell’accusa il vecchio ordine sociale intento a sparare le sue ultime cartucce.
Dopo aver scontato due anni di carcere, Braibanti torna alle sue attività evitando qualsiasi esposizione pubblica. La sua condanna scatena un dibattito che coinvolge molti intellettuali dell’epoca (e che nel 1981 porta a dichiarare incostituzionale il reato di plagio).
Si torna a parlare di lui solo nel 2006 quando, grazie all’interessamento di Franco Grillini e di alcuni parlamentari di sinistra, gli viene concesso il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli per le sue precarie condizioni di salute.