Breaking Dawn: l’alba che rompe le regole

Creato il 19 dicembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Postato il dicembre 19, 2011 | CINEMA | Autore: Andrea Lupo

Irrompe finalmente l’alba dentro la saga cinematografica e letteraria più remunerativa dopo quella di Harry Potter. Archiviati (definitivamente?) dissennatori, horcrux e incantesimi cruciatus l’attenzione del pubblico adolescenziale del globo può concentrarsi sull’epilogo della coppia che contende a Romeo e Giulietta il primato in fatto di sospiri e languori. Lontana da noi ovviamente l’idea di accostare i versi del capolavoro shakesperiano con la prosa innocua e prevedibile di Stephanie Meyer, resta indubbiamente il fatto che la coppia Edward-Bella della “Twilight Saga” è riuscita ad avere, in questo primo scorcio di nuovo millennio, un impatto emotivo e sociologico non troppo dissimile da quello provocato (nei secoli però) dagli amanti sfortunati ritratti dal Bardo. Quantomeno su una platea adolescenziale o neo-adulta, in larga parte femminile e costantemente sintonizzata sull’insolito triangolo umana-vampiro-licantropo di cui condivide ogni possibile moto esistenziale o palpito emotivo. Se poi aggiungiamo anche Facebook, responsabile di aver “riscaldato” per mesi le aspettative di uno sterminato fanbase attraverso lo scambio di umori reciproci sull’intera epopea, ecco allora che l’evento è servito, pronto per essere fagocitato da masse adoranti di fanciulle in erba e subito digerito nell’attesa del capitolo successivo. Nell’impossibilità di decifrare qui le ragioni di un fenomeno in cui si intrecciano e stratificano molteplici variabili (non solo le incognite dell’adolescenza ma anche miti generazionali e sociologia della rete) non resta che abbandonarsi, a visione (quasi) ultimata della saga, ad un’analisi prettamente cinematografica nel tentativo di rinvenire, sotto i brandelli di prodotti che in tanti si rifiutano di riconoscere come “cinema”, qualche sussulto originale di settima arte e di cercare, qua e là, di sintonizzarsi sulla stessa frequenza d’onda di chi vive ogni singolo film come un’esperienza personale totalizzante.

Crepuscolo, Luna Nuova, Eclisse e Alba che Irrompe, questi i titoli con cui la Meyer definisce abilmente i passaggi fondamentali (e gli spostamenti del cuore) della sua storia semplice di umane che vollero diventare mostri per amore di vampiri che amano ciò che è umano, il tutto con l’aggiunta di una sottotrama – il patto di non belligeranza fra vampiri e licantropi – che pare più un pretesto per animare il singolare triangolo (Edward-Bella-Jacob) piuttosto che l’occasione per affondare qualche canino (spuntato) nella mitologia stessa degli uomini-lupo. Come già accaduto per Harry Potter anche per tradurre in immagini la saga di Twilight si sono avvicendati quattro registi diversi i quali, a parte qualche guizzo, ben poco hanno potuto aggiungere rispetto alla consegna “produttiva” ricevuta e cioè di impaginare visivamente il dettato della Meyer. Ne vengono fuori prodotti visivamente impeccabili e sempre curati sotto il profilo tecnico (menzione speciale per le musiche tra le quali spiccano il romantico tappeto sonoro composto da Alexandre Desplat per “New Moon” e l’incalzante partitura del “tolkieniano” Howard Shore per “Eclipse”) ma eccessivamente ingessati sul versante puramente cinematografico ancorché gelosamente “chiusi” dentro la loro stessa struttura e poco disposti, a parte l’ultimo episodio, ad accogliere iperboli horror che avrebbero potuto renderli interessanti anche ad un altro pubblico.

Non solo fuori dal genere (i twilighters duri e puri non sono di sicuro appassionati dell’occulto o del fantasy) ma essi stessi fondanti un genere a sé che potremmo quasi definire, in un rigurgito di neologismi, hor-romanticismo. Ecco perché, nell’assumere una posizione circa il gradimento ricevuto complessivamente dalla visione dei 3 film e ½ (Breaking Dawn è solo una parte prima), sembra più coerente, per chi scrive, posizionarsi a metà fra chi ne è completamente rapito e chi invece ne rifiuta a priori la stucchevolezza. The Twilight Saga è, pur con tutti i limiti di una produzione pensata per far cassa, puro entertainment giovanilistico, destinato a lasciare un segno più per la rappresentazione del desiderio adolescenziale che offre che per meriti artistici propri. Ecco così che tra i “crepuscoli” perfettamente fotografati da Catherine Hardwicke nel primo Twilight sono ancora rintracciabili alcuni dei segni del precedente lungometraggio della regista, quel “Thirteen” in cui si indagava (più acutamente s’intende) su scuola e disagio adolescenziale. Bella, nella visione dell’unica regista donna dell’intera serie, è un po’ come la Tracy protagonista di quel film. Anche lei è infatti spaesata e in cerca di un proprio ruolo all’interno del microcosmo scolastico, solo che stavolta non sarà l’incontro con una disinibita compagna di avventure a scardinare le sue certezze e a offrirgli nuove prospettive ma quello con un più “innocuo” vampiro; quell’Edward Cullen, curioso incrocio fra dandismo moderno e ragazzo della porta accanto, fascinosamente immusonito e castamente obsoleto destinato a far subito breccia nella goffa Bella e in “qualcosa” come 400 milioni di lettrici.

Strano caso che la regista, autrice non banale del primo e più dinamico episodio, non sia stata poi riconfermata per i successivi capitoli; ad addentrarsi nel cuore pulsante della saga saranno in seguito solo uomini. Però se la svolta, o meglio la luna nuova, vede il Chris Weitz di “About a Boy” e “La bussola d’oro” in cabina di regia, la musica di “New Moon”, rispetto alla prima pellicola, non cambia ma, piuttosto, sale di volume. Il secondo capitolo di “The Twilight Saga” (brand ormai ufficializzato a livello planetario) compie un percorso inverso rispetto a quello già seguito dalla Hardwicke la quale, glissando intelligentemente sui molti pensieri scritti di Bella, aveva restituito un primo capitolo più fruibile anche per un pubblico eterogeneo attraverso un mix di azione e sentimentalismo ancora non troppo indigesto ai maschietti. In “New Moon” invece il regista “sposa” interamente la causa produttiva (evidentemente “assetata” di utili) e secondariamente quella di Bella, allestendo quello che resta – nel bene o nel male – un monumento al sentimento adolescenziale femminile. “New Moon” è una rappresentazione diluita e a tratti estenuante del tormento di Bella, il resoconto della sua “melancholia” (mi si passi il termine) e di quel suo desiderio di auto-distruzione che, non potendo più concretizzarsi nell’invocazione alla trasformazione in mostro per mano (o per bocca) di un Edward ormai assente, finisce per travolgerla completamente, innescando in lei una sequela di azioni che stanno a metà fra negazione del desiderio verso l’altro (Jacob) e lo sciocco annientamento di se stessa. Inutile a questo punto invocare l’intercessione di valori altri o “alti”. La Meyer è una mormona convinta e nel suo fantasy al femminile rettitudine e sottomissione vanno a braccetto con la sofferenza, anche auto-inferta, e, forse, non è un caso che nella sua personale visione questa adolescenza votata al sacrificio coincida proprio con certi estremismi tipici del mormonismo.

Dopo la luna nuova, l’eclisse. Nel capitolo più “interlocutorio”, benché si assista ad una contrapposizione più netta fra i personaggi e le dinamiche dell’azione seguono traiettorie più fantasy (e del resto il regista, David Slade, è quello di “30 giorni di buio”, quindi a suo agio con vampiri che scorazzano a velocità supersonica), il tema preponderante resta quello del desiderio e dell’astinenza sessuale. Solo che a condurre il gioco stavolta è più lui che lei. Bella vorrebbe anche subito (e del resto intorno le gironzola sempre mezzo svestito il muscoloso Jacob), Edward invece è più tradizionalista e aspetterebbe il matrimonio. Nel gioco dell’eclisse, che vede sovrapporsi simbolicamente il sole-Edward a Jacob-newmoon, vive questa giustapposizione fra desiderio costretto suo malgrado all’attesa e sessualità ferina a cui si tenta di resistere. Se di sangue anche questa volta se ne vede pochino (giusto per evitare i divieti ai minori americani) è pur vero che la tensione (ormonale) sale di livello ogni qualvolta si registrano sconfinamenti nel desiderio (Bella in tenda riscaldata per necessità dal licantropo proprio come la “Georgie” del più noto anime giapponese) mentre l’action non esce fuori dai solchi già segnati da Blade e affini.

L’erotismo è plastificato ovviamente (e pure un po’ codardo) ma resta l’abilità nel riuscire a tenere desta l’attenzione delle fan, che non sembrano stancarsi mai di meccanismi abbastanza uguali a se stessi (il costante prendi-e-molla a scapito del povero Jacob) ed anzi sembrano ritrovarsi perfettamente nel perenne lambiccarsi di Bella e nella sua (forzata) attesa. Con “Breaking Dawn” i nodi finalmente si sciolgono e si può dar corso al matrimonio dell’anno. Fra preparativi di nozze e amiche della sposa c’è pure spazio per l’ironia (sino ad ora scorta un po’ solo nel primo episodio) anche se, dopo il fatidico “sì”, si ritorna subito in piena atmosfera “twilight” fra dichiarazioni di amore eterno e assoluto e una prima notte di nozze troppo pudica (solo per il pubblico però dato che la mattina dopo i danni del coito contemplano baldacchini sfondati e piume d’oca dappertutto). Ecco però che finalmente arriva il guizzo e con la gravidanza inattesa (qualcuno ha mai dubitato dell’esistenza di spermatozoi succhiasangue?) il mélo si intinge – finalmente – di horror. L’alien che si nutre all’interno di Bella come un verme solitario succhiandole vita e bellezza è la sferzata mostruosa che mancava fino ad ora, un momento quasi cronenberghiano, che ripaga gran parte delle smancerie vissute nella prima metà del film.

Non sappiamo se sia merito di Bill Condon, regista che ha all’attivo titoli come “Kinsey” e “Demoni e dei”, incentrati su personalità controcorrenti come il biologo che indagò sui comportamenti sessuali o il regista di Frankenstein, ma la sensazione che un “parassita” si sia insinuato nella saga è evidente. “Breaking Dawn” è la pellicola più “splendente” della serie, costantemente immersa in un biancore che contrasta col buio della morte o col rosso del sangue (si veda anche la riuscita sequenza-shock della torta nuziale fatta di corpi), un film che segna in modo inesorabile la stessa corruzione del genere fin lì costruito e la sua fine. Orrore, morte e rinascita in un crescendo che non disdegna momenti surreali (come il sangue succhiato dalla cannuccia per alimentare il “mostro”) né risparmia lo strazio della carne (il corpo di Bella prima prosciugato poi martoriato dai morsi) ma soprattutto che contamina il teen-movie facendone quasi territorio di sperimentazione.

La seconda metà di “Breaking Dawn – Parte 1” vale più di tutta la saga perché ne rappresenta indirettamente e inevitabilmente l’annientamento della sua filosofia di fondo; la mostruosità tanto evocata e desiderata come capriccio adolescenziale diviene finalmente realtà, passando per la decomposizione tanto del corpo quanto dei sogni. Bella non appartiene più né ai vivi, né ai non-morti diventando al più l’emblema di un martirio che non trova alcuna giustificazione utile se non quella della propria pervicace incapacità di stare al mondo. E poco importa se l’ostinazione con cui Bella difende il suo piccolo “assassino” che la divora dentro sia in realtà figlia diretta di un certo antiabortismo estremo tipico dei mormoni: la sua rinascita finale come nuovo “avatar” dopo il sanguinoso parto reca più i segni di una dannazione in cui si è imprigionati che quelli del dono d’amore a lungo atteso. O almeno questa è la sensazione che prevale al termine della visione. All’orizzonte del 2012 si affaccia già un’inutile e consolatoria parte seconda ma, in tutta sincerità, almeno per chi scrive, non poteva esserci alba migliore che potesse irrompere dopo il lieve ed inoffensivo sorgere dei precedenti crepuscoli


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