Sia i redattori che i collaboratori e i commentatori di questo blog sono, sicuramente, più ferrati di me attorno alle questioni che riguardano la storia globale degli ultimi cento anni. Ciononostante proporrò qui una sorta di breve riassunto di alcuni frammenti letti qua e là, tratti da varie fonti, ricavate soprattutto da internet . Seguirà un breve commento ad un vecchio articolo del Corriere.
Nel 1937 iniziò la guerra degli otto anni di resistenza della Cina contro gli invasori giapponesi; nel 1939 la Germania hitleriana attaccò la Polonia e questo fu l’atto con la quale prese avvio la seconda guerra mondiale. Nell’area estremo-orientale la situazione, in questo contesto, diventò critica e tale da mettere in allarme i più avveduti politici e strateghi americani. Le trattative fra Giappone e Stati Uniti per risolvere i contrasti politici iniziarono nella primavera del 1941 e proseguirono con difficoltà a causa delle iniziative aggressive nipponiche e delle decisioni politico-militari anglo-americane. Si dice che furono il vescovo James E. Walsh e padre James Drought , con l’intermediazione del finanziere Lewis Strauss, ad esprimere il 23 gennaio 1941, in un colloquio con il presidente Roosevelt e il segretario di Stato Cordell Hull, la proposta di una sorta di “Dottrina Monroe per l’Estremo Oriente”. Questo progetto assegnava una posizione egemonica in Asia al Giappone ma prevedeva il distacco del Sol Levante dalle altre potenze del Tripartito ed una stretta collaborazione con Stati Uniti e Cina in funzione anticomunista. Questa cosiddetta “Diplomazia della porta di servizio” (Backdoor diplomacy) proseguì, nonostante i forti dubbi di Roosevelt e Hull, così che il 10 novembre 1941 l’ambasciatore Nomura presentò al presidente Roosevelt il progetto “A” che prevedeva una sospensione dell’embargo statunitense in cambio dell’interruzione di mosse aggressive giapponesi e della promessa del ritiro dalla Cina entro 25 anni. Il 16 novembre giunse a Washington l’inviato speciale Kurusu per affiancare Nomura nella fase decisiva dei negoziati ed i due diplomatici il 20 novembre consegnarono a Hull il progetto “B”, l’ultima proposta giapponese che prevedeva il ristabilimento delle relazioni commerciali tra i due paesi, la collaborazione in Asia, il sostegno statunitense ad un accordo tra Giappone e Cina nonché il ritiro del Sol Levante dall’Indocina. Hull, già a conoscenza di questi dettagli grazie all’ottimo lavoro dei servizi segreti, si mostrò rigido e criticò il progetto, attaccando la collaborazione tra giapponesi e tedeschi e paragonando il comportamento nipponico in Cina a quello del Terzo Reich in Europa. Il pomeriggio del 26 novembre (in quel momento la flotta di attacco a Pearl Harbor era già partita dal punto di incontro della baia di Hitokappu) gli Stati Uniti presentarono la loro controproposta finale per raggiungere un modus vivendi (la cosiddetta Hull note), in cui veniva richiesto al Giappone, in cambio della ripresa delle relazioni commerciali, non solo l’evacuazione dell’Indocina, ma anche della Cina, l’abbandono dei governi satelliti di Mukden e Nanchino e un accordo nippo-americano che neutralizzasse le clausole del patto Tripartito. I dirigenti statunitensi erano consapevoli della difficile situazione diplomatica e dei rischi di guerra: il 27 novembre il segretario alla Marina Knox diramò un “preavviso di guerra” ai capi della U.S. Navy, mettendo in guardia sulla possibilità di un imminente attacco giapponese. Ma torniamo un attimo indietro e precisamente nel luglio di quello stesso anno e ai fatti raccontati da Churchill in questa nota riportata dagli storici:
<<Un pomeriggio, verso la fine di luglio, Harry Hopkins venne a trovarmi nel giardino di Downing Street; ci sedemmo insieme sotto il sole. Mi disse subito che il Presidente avrebbe assai desiderato incontrarsi con me in qualche baia solitaria o altrove. Risposi immediatamente di essere certo che il Gabinetto mi avrebbe lasciato partire. Cosi, tutto fu rapidamente combinato. Come luogo d’incontro fu scelta la baia di Placentia nell’isola di Terranova, la data fu fissata al 9 agosto e alla nostra più moderna corazzata, la Prince of Wales, fu impartito l’ordine di tenersi pronta per salpare. Nutrivo un intenso desiderio dì incontrarmi con Roosevelt, col quale, in corrispondenza ormai da quasi due anni, trattavo con crescente familiarità. Inoltre, un nostro incontro avrebbe affermato dinanzi al mondo la collaborazione sempre più stretta della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, avrebbe preoccupato i nostri nemici, fatto riflettere il Giappone e rincuorato i nostri amici. C’erano poi molte questioni da sistemare circa l’intervento americano nell’Atlantico, gli aiuti alla Russia, i nostri rifornimenti e, soprattutto, riguardo alla crescente minaccia del Giappone>>.
L’interlocutore del premier inglese, il presidente Franklin D. Roosevelt, con la seconda guerra mondiale in corso da quasi due anni, nonostante le pressioni isolazioniste interne, stava cercando di pilotare con cautela gli Stati Uniti verso l’intervento. Nell’ambito di questi sforzi, nell’estate del 1941, egli decise perciò di incontrarsi, al largo delle coste di Terranova, con il primo ministro britannico Winston Churchill. L’obiettivo era quello di redigere una dichiarazione congiunta sui principi da seguire nel presente e nel futuro riguardo all’ordine mondiale e rappresentò il terzo dei grandi proclami voluti da Franklin D. Roosevelt per annunciare la sua visione del mondo del dopoguerra, presentando una coerente visione di un sistema internazionale rimodellato su principi wilsoniani, ma con elaborazioni maturate dall’esperienza della Grande Depressione e del New Deal.
Fu così redatta la Carta Atlantica che comprendeva otto punti, dei quali il primo era quello più significativo: in esso si affermava che Stati Uniti e Gran Bretagna « non cercavano ingrandimenti, territoriali o di altra natura ». I rimanenti si soffermavano invece su problematiche quali sovranità; cooperazione e sviluppo economico; accesso ai mercati; perseguimento della pace. In particolare, il sesto si confrontava con la « distruzione finale della tirannia nazista », mentre l’ottavo proclamava come “tutte le nazioni del mondo debbano arrivare a rinunciare all’impiego della forza “ Salutata da molti con favore, la Carta Atlantica fu accolta dagli isolazionisti americani con una serie insistente di critiche. Secondo loro, infatti, essa costituiva un tentativo di mascherare un accordo segreto fra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che avrebbe sicuramente portato all’entrata in guerra. L’attacco giapponese a Pearl Harbor, alcuni mesi più tardi, dissipò comunque le ultime resistenze isolazioniste, mentre la Carta Atlantica rimase a ogni modo un’importante dichiarazione di principi, dal valore, però, sostanzialmente propagandistico e retorico. Mentre la guerra volgeva al termine, Roosevelt, Churchill e Stalin s’incontrarono in una serie di conferenze a Teheran, Mosca e Yalta, durante le quali le questioni relative alle sistemazioni territoriali presero man mano il sopravvento, rendendo quindi sempre più insostenibili le dichiarazioni contenute nella Carta Atlantica Negli ultimi giorni del 1944 e nel preludio a Yalta, con tutte le parti che ormai si accapigliavano per ottenere accrescimenti e vantaggi territoriali, il presidente Roosevelt disse con una battuta che, in ogni caso, « nessuno aveva mai firmato la Carta Atlantica ». Infatti, come scritto da Robert Sherwood, la dichiarazione era stata « semplicemente ciclostilata e distribuita ». E proprio Sherwood, non a caso, è l’autore della sintomatica frase: “Il problema con me è che comincio con un grande messaggio e finisco con nient’altro che un buon intrattenimento”. Comunque, tornando ai prodromi di Pearl Harbor, ricordiamo che in seguito al rifiuto di accettare l'”umiliante proposta americana” il 1º dicembre il governo giapponese e l’imperatore Hirohito , dopo discussioni approfondite , diede il suo consenso alla guerra contro gli Stati Uniti e i suoi alleati; venticinque ore dopo venne quindi inviato alla squadra navale in navigazione il messaggio in codice di conferma dell’attacco contro Pearl Harbor. Intanto un dispaccio di Roosevelt del 2 dicembre venne inoltrato solo nella serata del 6 dicembre, quando già era in corso l’evacuazione del personale dell’ambasciata giapponese e la distruzione dei codici segreti; era inoltre arrivata la prima parte della nota definitiva del Sol Levante. Il ministro degli Esteri giapponese Shigenori Tōgō inviò, comunque all’ambasciata di Washington tra le ore 22:10 e 01:50 della notte del 7 dicembre le tredici parti del documento finale, inteso come vera e propria dichiarazione di guerra. Il comandante Alvin Kramer, massimo dirigente dell’ l’ONI (Office of Naval Intelligence) si accorse dell’importanza del lungo documento giapponese ed anche della possibile minaccia sulle Hawaii, e dalle ore 21:00 del 6 dicembre, dopo la decifrazione delle prime tredici parti, prima allertò il segretario alla Marina Knox e poi si recò alla Casa Bianca per consegnare il testo. Furono allertati anche Cordell Hull, il segretario alla Guerra Henry L. Stimson e il generale Marshall (capo di stato maggiore dell’esercito). Roosevelt e i suoi collaboratori, dopo la lettura del testo intorno alle ore 11:00 del 7 dicembre, ritennero imminente la guerra ma solo il generale Marshall prese l’iniziativa, dopo le ore 11:25, di diramare un allarme generale a tutti i teatri di guerra, comprese le Hawaii, ma con particolare riguardo per le Filippine. Tuttavia, errori burocratici e formalità tecniche vanificarono e ritardarono anche questo allarme che raggiunse il generale Walter Short a Pearl Harbor solo dopo l’inizio dell’attacco giapponese. Anche questo ricostruzione che ho ricavato da vari frammenti in internet dimostra quello che La Grassa, che non è certo uno storico di professione, ha più volte affermato e cioè che con una serie di “sviste” e di “mancanze” volute e non volute Roosevelt riuscì a raggiungere il suo scopo mettendo fuori gioco le frazioni politiche isolazioniste degli Stati Uniti.
In un articolo sul Corriere del 21.07.2005 Vittorio Strada scrive una sorta di recensione ad un saggio dello storico russo Oleg Rzheshevskij dedicato ai rapporti intercorsi durante la seconda guerra mondiale tra Winston Churchill e Iosif Stalin. A partire dalla centralità della «questione polacca», che era stata alla base della guerra in modo diverso per la Gran Bretagna, intervenuta in difesa di quello che, in un colloquio con Churchill, Stalin definì ironicamente un «popolo capriccioso», e per l’ Unione Sovietica, che nel 1939 era anch’ essa intervenuta, ma a fianco di Adolf Hitler, per ampliare il proprio territorio a scapito di polacchi e baltici nell’articolo l’autore si domanda:
<< Come era stato possibile che Churchill, del quale è noto il rammarico di non aver soffocato «nella culla» il mostro bolscevico, fosse diventato il più fermo fautore di un’ alleanza col comunismo ormai maturo, per di più dal volto disumano di Stalin?>>
La risposta risulterebbe dall’ intransigente antinazismo che nell’«imperialista» Churchill secondo gli storici, anche filosovietici, sarebbe sempre stato prevalente e che gli fece dire al diplomatico sovietico, allora ambasciatore a Londra, Ivan Majskij, il 6 ottobre 1939, dopo l’ accordo germano-sovietico: «Alcuni miei amici conservatori consigliano la pace. Temono che nel corso di una guerra la Germania diventi bolscevica. Ma io sostengo la guerra fino alla fine. Hitler deve essere annientato. Il nazismo deve essere distrutto una volta per sempre. La Germania diventi pure bolscevica, la cosa non mi spaventa. Meglio il comunismo che il nazismo». Il dialogo tra l’ anticomunista Churchill e l’ anticapitalista Stalin era caratterizzato dal fatto che Stalin si sentiva padrone della situazione e con calma cercava di ottenere il più possibile nelle trattative, mentre Churchill era diviso tra il riconoscimento della forte personalità del dittatore sovietico e la consapevolezza di avere di fronte un amico-nemico estremamente insidioso. La questione polacca era essenziale per entrambi e a questo proposito risulterebbe molto interessante, secondo Strada, il confronto tra il testo dei colloqui ufficiali a tre (Churchill, Stalin e Roosevelt) a Yalta il 6 febbraio 1945, in cui Churchill sostiene con fermezza e insieme con prudenza la causa dell’ indipendenza polacca, e lo sfogo che subito dopo egli fa a tu per tu con Majskij: «Sono molto amareggiato. Stalin è troppo inflessibile. Nel mio ultimo discorso ho cercato di essere il più possibile cauto e morbido. (…) Ma se devo essere franco, ogni giorno riceviamo molte informazioni che dipingono la situazione interna in Polonia in una luce estremamente cupa: (…) vengono operati arresti in massa e deportazioni in Siberia di tutti i dissenzienti, tutto si regge sulle vostre baionette». Mi viene da considerare che statisti iperrealistici come Churchill e Roosvelt fossero ben poco “scandalizzati”, in realtà dalla “durezza” di Stalin e che quest’ultimo ne era ben consapevole; ne fu testimone Vjaceslav Molotov, quando riferì che durante la conferenza di Yalta egli, perplesso di fronte a un altisonante e impegnativo documento proposto dagli americani sulla liberazione dei popoli d’ Europa, lo mostrò a Stalin, ma questi lo tranquillizzò:
«Che importa? Andate avanti lo stesso. Poi lo potremo applicare come ci pare. Tutto dipende dai rapporti di forza».
«Rapporti di forza» che per Stalin non avevano soltanto un carattere militare, poiché di non minor importanza erano i vantaggi a lui garantiti dalla vasta rete di spionaggio da tempo attiva nei Paesi alleati e dall’ appoggio di ampi strati «progressisti», oltre che direttamente comunisti, presenti in Occidente, sostenitori della politica sovietica. L’abilità di Stalin risalterebbe anche da un colloquio notturno del 9 ottobre 1944. Queste le parole di Churchill:
<<«gli inglesi sperano che nell’ Italia settentrionale il potere si costituisca sotto la guida dell’ esercito alleato. Gli inglesi non tengono in gran conto il re italiano, ma non vogliono che in Italia, dopo o prima della partenza delle forze armate alleate, scoppi una guerra civile». E continua: «Vorremmo che il governo sovietico frenasse l’ attività dei comunisti italiani affinché essi lascino in pace l’ Italia e non vi creino eccitazione»>>.
La risposta di Stalin fu magistrale, anche per lo humour sottile che forse a Churchill sfuggì. Stalin dice che «per lui è difficile influire sui comunisti italiani» e che l’ Italia non è come la Bulgaria dove si trovano le truppe sovietiche, per cui lì egli può «ordinare ai comunisti di fare questo e quello». Se Stalin, invece, «desse dei consigli a Ercoli (cioè Togliatti, ndr), questi potrebbe mandarlo al diavolo poiché lui, Stalin, non conosce minimamente la situazione nazionale in Italia. Tutt’ altra cosa quando Ercoli era a Mosca e Stalin poteva conversare con lui. Egli, Stalin, può dire soltanto che Ercoli è una persona intelligente e non azzarderà un’ avventura».
Meno significativa è una breve interlocuzione che i due avrebbero avuto nell’ agosto 1942 quando Stalin, per appianare la tensione degli incontri diurni, invitò Churchill a cena nel suo appartamento al Cremlino. Lì Churchill manifestò la sua curiosità per la formazione dei kolkhoz e la sorte dei kulaki. Come riferisce un testimone diretto, l’ interprete di Stalin Valentin Berezhkov, il «padre dei popoli» riconobbe che «la politica della collettivizzazione fu una lotta terribile». E quando Churchill osservò che Stalin aveva avuto a che fare non «con un pugno di aristocratici latifondisti, ma con milioni di piccoli agricoltori», il capo del Cremlino esclamò, sollevando le mani: «Dieci milioni. È stato terribile», ma riaffermò la necessità dell’ operazione. Anche qui l’autore dell’articolo sembra quasi voler attribuire preoccupazioni “umanitarie” ai due statisti ma la sintesi “machiavellica” di volpe e leone non contempla, credo, simili amenità.
Secondo Strada “Churchill stette al gioco” e qui non capisco cosa abbia voluto dire l’articolista mentre è sicuramente vero quello che viene affermato in conclusione all’articolo e cioè che finita l’ alleanza, così come Stalin ritornò l’ anticapitalista di sempre, Churchill diede via libera al suo congenito anticomunismo e fece apprestare dal suo stato maggiore un piano di attacco militare angloamericano all’ Urss, che doveva iniziare il 1 luglio 1945. Tutto, però, restò sulla carta, come più tardi avvenne per un analogo piano sovietico di guerra contro l’ Europa occidentale.
Mauro Tozzato 19.08.2015