Anche l’esperienza in India riguarda circuiti paralleli di moneta, in questo caso il cambio dollaro-rupia al tasso ufficiale e al nero. Sono andata in India nel 1984, ricordo bene l’anno perché, proprio al momento dell’arrivo del nostro gruppetto di una decina di privati autogestiti, il paese era in subbuglio per via dell’assassinio di Indira Gandhi da parte delle sue guardie del corpo di religione Sikh. L’aeroporto di Nuova Delhi era un delirio, ma la capitale e il resto del paese non sembravano preda di violenze maggiori del solito. Durante gli altri due o tre passaggi aerei bastava seguire le istruzioni di vecchi viaggiatori prima di noi e lasciare due o tre pacchetti di Marlboro in bella vista dentro al bagaglio a mano. Nessun doganiere indiano indagava il bagaglio più in profondità. Il viaggio comprendeva, oltre ai classici siti di Nuova Delhi, il percorso delle città sacre del Gange da Rishikesh a Calcutta e una puntata in Orissa, aperta quell’anno al turismo occidentale e non solo a quello dell’alleato di ferro dell’India, l’URSS.
Fu al Forte Rosso dove esiste un bel bazar, paradiso del souvenir a buon prezzo come trofeo turistico, che imparai velocemente la necessità di conoscere la differenza tra tasso ufficiale e cambio al nero di dollari contro rupie. Devo ammettere di avere un’innata predisposizione a far amicizia facilmente, a capire lingue che ignoro e arrangiarmi con quelle parole che so, a capire lo spirito di una situazione e amo le contrattazioni all’orientale. In India mi sono trovata nel mio elemento, anche se c’è da dire che all’epoca turisti americani e giapponesi avevano cominciato a rovinare la piazza pagando senza discutere, perché abituati ai prezzi fissi dei supermercati, cifre esorbitanti, intorno al mille per cento e più del prezzo pagato dagli indù per quella merce. Sarà perché abituata a mio padre che non usciva mai da un negoziò senza chiedere e in genere ottenere uno sconto, sarà perché tutta la contrattazione è anche un esercizio di comunicazione, fin da subito ho trovato un feeling particolare con i commercianti e gli artigiani locali. Per chi non lo sa, pagare senza discutere in India (e altrove) è offensivo, perché significa non valutare la merce e chi la vende degna del tuo tempo. Ed è soprattutto nei mercati più piccoli che il rituale della contrattazione è particolarmente soddisfacente.
Nel febbraio 1968, Rishikesh fu meta di un viaggio dei Beatles, dove il gruppo britannico studiò la meditazione trascendentale al seguito del guru indiano Maharishi Mahesh Yogi, che vi aveva un ashram. Così una cittadina peraltro priva di grandi attrattive artistiche, alle sorgenti del Gange, era diventata alla moda presso certi circuiti alternativi orientaleggianti occidentali e sede di vari ashram spenna-polli. Mentre il nostro gruppetto pagava profumatamente un paio d’ore di meditazione, io e Flavia ce ne andammo in giro per il mercato locale. Contrattammo per oltre un’ora e mezza il prezzo di alcuni braccialetti e collane d’argento antichi, apparsi miracolosamente da una scatola nascosta dopo che si faceva finta di contrattare su bracciali nuovi da turista da almeno mezzora. Il negozio si trovava, pieno da scoppiare di merci varie, in una lunga fila di baracchette di legno che vendevano di tutto, dalle collane di tagete da offrire al lingam di Shiva alle spezie di ogni genere. Dopo un paio di passaggi a chiedere il prezzo due o tre volte, venimmo invitate a sedere dentro il negozio e, dopo l’offerta del tè, il rituale della contrattazione cominciò sul serio, in inglese, con tanto di sceneggiate, finte offerte, richieste di sconti ribaldi, prezzi al cambio ufficiale e in nero, mentre si radunava una piccola folla a godersi lo spettacolo. Una terza opzione, oltre a quello dello scambio dollaro-merce, rupia-merce, era il baratto, per esempio un orologio digitale di marca o altri beni di prestigio. Alla fine raggiungemmo un prezzo ritenuto ‘onesto’ da entrambe le parti (non si deve pensare che un occidentale possa spuntare lo stesso prezzo di un indiano, ma ci siamo andate vicino) e ci lasciammo con attestati di reciproca stima e commenti soddisfatti degli spettatori.
Così continuammo da Rishikesh fino a Calcutta, tenendo aggiornato l’indispensabile tasso di cambio dollaro/ rupia nei due circuiti, ufficiale e parallelo, grazie alle informazioni ottenute da facchini, camerieri, guidatori dei rishò, venditori di collane di fiori e candele profumate e sacerdoti di altarini popolari dove offrivamo le suddette collane e candele alle divinità locali e alle vacche sacre (le collane, che mangiavano volentieri, tra la soddisfazione dei passanti, non le candele). L’apoteosi la raggiungemmo a Puri, Orissa dove contrattammo per due giorni un certo numero di oggetti con i venditori, due fratelli del Kashmir. Alla fine i due buttarono fuori tutti dal negozio (all’occidentale), chiusero la porta a chiave e dichiararono che nessuno sarebbe uscito fino alla fine della contrattazione. Così dopo due giorni di cazzeggio e sceneggiate strappandosi i capelli, mio padre mi disereda se accetto il tuo prezzo, tassi al nero, al bianco, offerte di baratto, questo è il tuo penultimo prezzo, qual è l’ultimissimo prezzo, eccetera, alla fine giungemmo all’agognato prezzo finale, il prezzo che batteva tutti gli altri prezzi, in dollari al cambio nero. Eravamo tutti stremati ma soddisfatti. I due fratelli ci offersero della vodka, lasciata loro da clienti russi, che loro non bevevano perché musulmani (brindarono con acqua), per dimostrare il loro apprezzamento per come avevamo onorato l’uso tradizionale e il rituale commerciale locale.
In conclusione, oltre all’interesse antropologico per i rapporti tra due parti in una transazione commerciale tradizionale, l’episodio mostra che in un’India ferrea alleata dell’Unione Sovietica, con regole severissime sull’importazione, esportazione di capitali, moneta e beni di lusso (macchine fotografiche, cineprese, orologi di marca, ecc. erano registrati sul passaporto, per timore che fossero venduti/barattati), ma con enormi sacche di arretratezza rurale, i piccoli commercianti e artigiani a contatto con una clientela occidentale come noi, non danarosa (per il nostro standard), ma desiderosa di comprare, aveva perfezionato un doppio canale monetario, dollaro/rupia, a tasso variabile ufficiale/nero, e il baratto di oggetti trendy, il cui funzionamento era stato subito accessibile anche a persone come noi, che giungevano in India per la prima volta e non parlavano le lingue locali, ma solo l’inglese (segue).
Breve storia del denaro (parte 17b): circuiti paralleli in India
Creato il 25 novembre 2012 da DavidePotrebbero interessarti anche :
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