“Brodo di gallina” di Daniela Raimondi per "La gaia mensa"

Da Silviamaestrelli

Per un finesettimana di letture nutrienti… il racconto “Brodo di gallina” di Daniela Raimondi, per “La gaia mensa”, il concorso letterario di Villa Petriolo edizione 2010.
Daniela Raimondi, di Saltrio (VA), ha vissuto in America Latina e Inghilterra. Ha ottenuto riconoscimenti letterari nazionali e ha pubblicato in riviste italiane e estere. Suoi testi sono stati tradotti in inglese e ungherese. Ha pubblicato i libri di poesia: Ellissi, Inanna, Mitologie Private, e il monologo teatrale Entierro. Sono in uscita: un libro di poesie in edizione bilingue presso le Edizioni Gradiva di New York, i libri/CD Diario della Luce e Furestér, con Ornella Fiorini e prefazione di Franco Loi.

Racconto “Brodo di gallina” di Daniela Raimondi

“Ma dov’è finito Erasmo?” Ce lo chiedevamo ad intervalli regolari. Noi eravamo pronti: mia madre con la permanente appena fatta e il nuovo vestito a pois; io con le scarpe tinte con la biacca e un grande fiocco in testa. E c’erano le valige, i panini col prosciutto, l’aranciata e il termos con il caffè. Abbastanza cibo per farci sopravvivere un viaggio al circolo polare artico, anche se dovevamo percorrere meno di trecento chilometri. Mancava solo zio Erasmo, unico membro della famiglia che ai tempi avesse la macchina. Alla fine spuntò, clacson premuto allegramente ad annunciare con orgoglio l’acquisto della nuova Millecento.
Non stavo nella pelle, ché andare in vacanza della nonna era un lusso che aspettavo tutto l’anno. In macchina però stavo regolarmente male. Tempo dieci chilometri, ed ero là che vomitavo sul ciglio della strada. L’anno prima mia madre aveva provato con delle pastiglie comprate in farmacia, ma dopo avermi somministrato per sbaglio una dose sufficiente per un cavallo, ero piombata in un sonno semi-comatoso che durò per giorni e quasi uccise me per overdose e lei per il rimorso. Dopo quell’esperienza fu deciso che mai più pastiglie, per l’amor di Dio, che la bambina vomitasse pure l’anima se necessario.
Infatti anche in quell’occasione vomitai ad intervalli regolari, finché mi addormentai, occhi rovesciati all’indietro e biancore cadaverico. Però non prima di sentire mia madre che sentenziava:
“Appena arriviamo le diamo subito un bel brodo di gallina.”
Sapeva che, ad attenderci a casa della nonna, il brodo di gallina c’era sicuramente. In Emilia il brodo di gallina è più di un alimento. Per ogni famiglia della bassa padana, il brodo di gallina è il pasto sacro per eccellenza, un’icona, il rito obbligatorio nei pranzi domenicali di tutta un’esistenza. Non manca mai nelle riunioni di famiglia. Si sussurra sia prodigioso nella cura di svariate condizioni mediche. Assicurasi essere rimedio efficace contro indigestioni, raffreddamenti, stati febbrili, dolori mestruali, parto, puerperio, nonché nei casi di costipazione e stati depressivi. L’immancabile brodo di gallina è il fedele compagno di tutti i compleanni, le prime comunioni, i matrimoni, le rotture di fidanzamento e le riunioni post funerarie. Ogni rito di passaggio, ricorrenza o malattia che si rispetti, viene marcata dall’assunzione del famigerato brodo, possibilmente tagliato con un pezzo di biancostato e sempre accompagnato da tagliatelle all’uovo. Cospargere con formaggio grana e voilà: se Dio mangia qualcosa, di certo deve essere il brodo di gallina con le tagliatelle fatte in case.
Anche in occasione del viaggio nella nuova Millecento di Zio Erasmo, il trauma del viaggio fu seguito della somministrazione del brodo di gallina che, a onor del vero, di leggero aveva ben poco.
La casa dei nonni era un luogo straordinario. Si trovava addossata al grande fiume ed era un casermone scalcinato che il secolo prima era stato adibito a magazzini per il grano. Aveva stanze enormi con soffitti altissimi. Le finestre erano talmente in alto che fuori si vedeva solo cielo. Per riuscire a chiudere le imposte, avevano dovuto costruire tre gradini di pietra.
La mattina gironzolavo per casa e curiosavo nei cassetti in cerca di curiosità e vecchi cimeli. Nella stanza da letto dei nonni c’erano dozzine di fotografie dei cari defunti in bella fila sul comò. Sul letto ricordo un copriletto di raso e una bambola di porcellana dagli occhi azzurri e l’espressione allucinata.
Dopo pranzo andavo nel frutteto con il nonno o lo seguivo al Po per pescare i pesci gatti. Attraversavamo il bosco di pioppi per raggiungere una piccola spiaggia dove mi sedevo, attenta a non fare rumore altrimenti spaventavo i pesci.
A volte invece passavo i pomeriggi sotto i portici deserti del paese, con il sole che picchiava sulla testa, il cicaleggio incessante dei grilli e un ghiacciolo rosso che mi colava fra le mani. Quando mi annoiavo rientravo e cercavo la nonna. Pareva essere sempre in cucina:
“nonna, nonna: raccontami di quando eri povera” – le chiedevo.
La povertà aveva un non so ché di magico. Quel parlare di stenti, di pane che mancava, di parti difficili, dei figli morti ancora piccoli, mi lasciava senza fiato. E me ne stavo lì, con la bocca aperta ad ascoltarla. La nonna parlava, rideva o sospirava e intanto, maniche tirate fin sui gomiti, grembiule fresco allacciato sulla schiena, lasciava cadere uno ad uno le uova nella farina della sfoglia. Un crack del polso e partiva un uovo; un altro crack e partiva il secondo. Quando tutte le uova erano posizionate al centro di quel perfetto vulcano bianco, lei prendeva la forchetta e iniziava a batterle veloce. Poco a poco iniziava ad amalgamarvi dentro la farina. Il vulcano bianco scivolava irrimediabilmente nel centro liquido e giallo, creando una pasta elastica che la nonna avrebbe poi lavorato sotto i palmi infaticabili delle sue mani. La osservavo mentre dava colpi ritmici e sapienti alla pasta che si trasformava rapidamente diventando lucida e arrendevole Quando era pronta, la nonna ripuliva l’asse di legno e, con un gesto di benedizione, vi spargeva sopra un lieve strato di farina. A quel punto passava al mattarello. Eravamo alla fase più artistica della preparazione: in pochi minuti di energico lavoro, la pasta andava allargandosi, assottigliandosi fino a diventare un grande, cerchio. Era un sole: un sole luminoso e trasparente. Ora la pasta era pronta per essere tagliata e trasformata in fragranti tagliatelle.
A quel punto la nonna iniziava a fare il brodo. La pentola aspettava sul fuoco con l’ acqua e il sale. Pezzi di carote, aglio e cipolla galleggiano in attesa della gallina vecchia e del biancostato, ché un buon brodo va sempre tagliato con due carni diverse. Io davo la caccia alla gallina, ma non avevo mai il coraggio di ucciderla. Allora, senza battere ciglio, la nonna le tagliava la testa con un solo colpo. Zac! Ricordo l’orrore che spesso seguiva quella cruenta decapitazione: la testa restava sul gradino di pietra, la gallina invece continuava a correva per il cortile saltellando per un tempo che mi pareva lunghissimo. Sembrava un giocattolo, non fosse per il fiotto di sangue che spillava dal collo reciso. Rivedo la nonna seduta sullo sgabello mentre spellava la gallina di turno: le piume le cadevano tutt’intorno. Una volta il vento si levò all'improvviso. Di colpo le piume vorticarono nell’aria formando una nuvola bianca che per un momento sembrò coprire l’intero cortile.
Finito di spellare l’animale, la nonna tornava in cucina. Toglieva gli intestini ancora caldi con la mano che brillava. Metteva in fila il piccolo cuore, i grappoli di uova, lo stomaco azzurro tagliato a metà. Poi bruciava le zampe sul fuoco. La pentola schiumava, la fame dei gatti strisciava fra le gambe e io restavo in punta di piedi, in silenzio. Le mani appoggiate al bordo del tavolo, fissavo quella goccia cadere, le sue mani insanguinate.
A mezzogiorno era tutto pronto: la cucina profumava di fresco. La tovaglia era bianca, il pane dorato. Nonna cuoceva le tagliatelle nel brodo, le metteva nei piatti e cospargeva il tutto con una nevicata di grana. Fu così ogni domenica, per tutti gli anni delle mie vacanze. La radio trasmetteva il Gazzettino Padano. Io dondolavo le gambe sulla sedia troppo alta e soffiavo sulla minestra. Era il tempo della quiete. L’estate era al di là di una tenda in cotone. Respirava come un leone nella piazza deserta, brillava sull’immensa distesa dei campi.

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