Navicelle bronzee 2° parte.
Alcune presentano un attacco per catenelle metalliche fini che chiudevano in un quadro simmetrico la catenella maggiore che, al centro, sosteneva il manico arcuato. È evidente che questo sistema di sospensione non consentiva la soluzione alternativa del poggiare l'oggetto in piano, visto che in tal modo sarebbe risultato problematico riporre in modo adeguato il complesso delle nove catenelle.
L'oggetto, progettato dunque per essere utilizzato in posizione sospesa, presenta uno scafo non più piatto, ma di sezione ovale in lunghezza. Il fondo piatto, non più necessario, è stato quasi del tutto eliminato, e la navicella mostra uno scafo decisamente convesso. Contro questa prima ipotesi potremmo tuttavia osservare che l'esigenza di posare l'oggetto in piano avrebbe potuto essere agevolmente risolta, senza deformare lo scafo, con l'aggiunta di sostegni o peducci, così come si nota in molte delle barchette definite di tipo V. Vi è anche da dire che la navigazione antica, praticata in molto maggior misura che non oggi a brevissima distanza dalle coste, faceva dell'isola uno straordinario punto d'osservazione lungo il quale era facile osservare il continuo e ininterrotto transito di navi e imbarcazioni di ogni genere e provenienza.
Più vicine alla costa dovevano navigare le barche a remi; più lontane, dove il vento non era alterato in forza e direzione dai rilievi montuosi, le grandi navi a vela. In tali condizioni l'osservatore poteva distinguere le forme ma non i dettagli, poteva riconoscere come tale un'alta protome, ma non l'animale che essa intendeva rappresentare, poteva intuire un'alberatura, ma non le complesse attrezzature di governo, il sartiame, la tecnica con la quale l'albero veniva impostato sullo scafo. Di contro si potrebbe ribattere che quelle stesse navi dovevano pur prima o poi venire a diretto contatto con le genti del luogo, o per commerci, o per rifornimenti, o per naufragio. In tali casi sarebbe certo stato possibile osservare nei dettagli lo scafo.
Accanto allo scafo di forma ellittico-convessa con fondo piano è possibile riconoscere altre due tipologie che vanno sempre più arricchendosi di nuove testimonianze archeologiche. Si tratta degli scafi di tipo V, con prua e poppa fortemente carenate e sezione maestra trapezoidale, e di quelli cuoriformi tipo C. E’ sempre assente l'albero mentre sono frequenti le decorazioni in rilievo, assenti nelle tipologie ellittiche, tanto sul manico che sulle mura, talvolta ornate con animali, personaggi, oggetti.
Più di ogni altra la navicella di tipo V è quella che sembra fedelmente riprodurre una vera e propria imbarcazione. Le pareti dello scafo disegnano nella sezione maestra un trapezio capovolto, il cui baricentro risulta spesso così alto che per assicurare la stabilità dell'oggetto è necessario provvederlo di peducci di sostegno. Il fondo piatto è qui certamente un dato strutturale della costruzione, dando così vita a un natante di piccole dimensioni, circa 7 metri, adatto per via del basso pescaggio alla navigazione in acque interne o a brevi tragitti verso le isole minori o ancora alle funzioni di navetta per assicurare i collegamenti tra la terraferma e navi di assai maggiori dimensioni, costrette a sostare in rada per l'assenza di scali ben attrezzati.
Lo scafo cuoriforme tipo C si distingue per la caratteristica foggia a lucerna, dal corpo basso e tondeggiante che si affila in prossimità della poppa disegnando un beccuccio, mentre sul lato opposto è saldato il manico, orizzontale e relativamente lungo e sottile, che termina con una piccola protome animale. Inizialmente classificati come lucerna, gli scafi cuoriformi sono oggi concordemente conosciuti e definiti come navicelle bronzee. Dal punto di vista nautico la funzionalità dell'oggetto è pressoché nulla per le mura troppo basse e per il peso eccessivo della protome, che inevitabilmente avrebbe spinto la prua dentro l'onda causando l’ingavonamento dell'imbarcazione. Nulla vieta, tuttavia, che la lucerna si ispiri a un tipo reale di imbarcazione palustre e che le incongrue dimensioni della protome non siano che una forzatura interpretativa dell'artigiano, che avrebbe ingrandito la piccola prominenza prodiera per facilitarne la presa nell'uso domestico.
Nel 1960, come ricorda il Paglieri , “tutti i tipi di navi antiche riconosciuti dalle raffigurazioni si rifanno chiaramente a tre forme fondamentali di scafo: la nave tonda, con le due estremità rialzate; quella lunga, forgiata a trave con acuminato sperone a prora; quella di tipo misto, con uno scafo del tipo della nave tonda e l'aggiunta di uno sperone sotto la prua”.
Il Lilliu distingue nelle navicelle sarde un tipo corto, tondeggiante, simile alla gôlah dei Fenici, e un tipo lungo, assimilabile alla hippos sempre fenicia. Tuttavia la gôlah si distingue dalle navi nuragiche per la presenza di due ordini di rematori, così come per l'assenza della protome.
S. Moscati riferisce che “due erano i tipi principali: il primo prettamente da guerra, con poppa fortemente ricurva e lo sperone a filo d'acqua; il secondo con entrambe le estremità rialzate. Un terzo tipo di imbarcazione, più piccolo, è riprodotto sulle porte bronzee di Balawat e sui rilievi di Sargon II a Korshabad”.
Risulta così esclusa ogni possibile identificazione tra navi fenicie di tipo lungo, caratterizzate dalla presenza del rostro, e navicelle nuragiche, generalmente prive di sperone. L'assenza tra le raffigurazioni nuragiche di esemplari rostrati può condurci a due differenti considerazioni:
a) le imbarcazioni sarde non erano adatte a intraprendere rischiose navigazioni d'alto mare;
b) le navicelle nuragiche sono l'imperfetto modello di navi anche rostrate, osservate lungo le rotte, che in gran numero costeggiavano l'isola e il cui sperone, occultato alla vista per essere quasi del tutto sommerso, non è stato di conseguenza rappresentato.
E se è pur vero che le navi dei primi Fenici venivano spesso tirate in secca sulle spiagge dell'isola per far lì mercato con le popolazioni del luogo, ciò accadeva più di frequente alle navi commerciali che non a quelle lunghe da guerra, le quali comunque venivano sempre tirate in spiaggia dal lato di poppa, pronte alla fuga, così che l'eventuale rostro prodiero restava comunque sommerso.
L'assenza di rostro sulle navicelle sarde parrebbe ancora alimentare l'ipotesi che i sardi ignorassero la tecnica costruttiva a coste e chiglia, o che quantomeno non disponessero del legname d'alto fusto necessario alla sua realizzazione. L'efficacia del rostro è infatti strettamente correlata all'insostituibile presenza di una lunga e solida trave di chiglia, unito alla quale lo sperone si comporta come una testa d'ariete e solo in virtù di quella è in grado di infliggere e sopportare urti anche di notevole violenza.
Nell'immagine alcune navicelle esposte al Museo Archeologico di Cagliari