Considerazioni sugli aspetti formali e simbolici
È evidente che gli artigiani tendevano a creare un oggetto che riproducesse la forma di un'imbarcazione ed è opportuno tenere presente l'esistenza di tre categorie fondamentali di modelli:
- vere e proprie riproduzioni di navi;
- oggetti d’uso nei quali l’aspetto naviforme ha un semplice scopo decorativo;
- prodotti simbolici di uso cultuale, specie in contesti funerari, legati al concetto del viaggio nell'oltretomba.
L'identificazione delle navicelle come doni votivi è strettamente dipendente dal contesto di rinvenimento, anche se a volte si è abusato nell’attribuire alla sfera votiva gli oggetti di cui non si riusciva ad individuare la funzione. Il dono votivo può essere un atto di gratitudine alla divinità da parte di un uomo di mare per lo scampato pericolo.
Il rinvenimento di questi modellini in contesti domestici, fa pensare a un loro uso nel quotidiano: oggetti votivi, lampade, simboli di prestigio. Votivo significa “offerto alla divinità”, e come tale può ben indicare un oggetto che ha una funzione pratica: una lucerna a navicella può avere anche un uso pratico. Il ritrovamento in diversi contesti dimostra che il bene era prezioso sia nella vita che nella morte.
Il valore religioso, oltre che dalla collocazione nei luoghi sacri, era messo in rilievo dalla valenza di ex-voto di particolare prestigio e importanza, ed all'utilizzazione della navicella come lucerna votiva adoperata nell'illuminazione degli ambienti bui, all'interno di santuari e sacelli, poggiata su un piano o sospesa per mezzo dell’appiccagnolo. La funzione di lucerna votiva è ipotizzabile sulla base del confronto con un'analoga classe di manufatti realizzati in ceramica. Gli elementi più significativi di confronto giungono dai risultati di un'importante scavo effettuato nel nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca.
Durante lo scavo del vano “e” in strati databili al Bronzo finale, alla prima età del Ferro e all'età orientalizzante ed arcaica, si rinvennero oltre 500 modellini fittili di navicelle. I dati dello scavo, condotto da Giovanni Ugas nel luglio 1989, e parzialmente editi dallo stesso autore nel 1990, mostrano la maggior parte delle navicelle con una protome generalmente bovina all'estremità della prua. Il ritrovamento di questi oggetti in un ambiente del nuraghe chiaramente adibito a sacello ribadisce il valore cultuale di queste classi di oggetti che richiamano negli aspetti tipologici le più preziose navicelle di metallo.
Al di là di un loro utilizzo in termini funzionali si leggono significati legati a convenzioni simbolico-religiose che rispecchiavano valori sociali in relazione con la figura dello status dell'offerente. La presenza di rappresentazioni animali sul margine di alcuni modellini può essere interpretata come espressione della volontà di accentuare con la ricchezza di elementi figurati il valore e l'importanza dell'oggetto.
Il ritrovamento di numerose navicelle in aree non cultuali, ripostigli ed ambiti insediativi, evidenzia comunque la circolazione e la tesaurizzazione del bene tra membri di rango della comunità, prospettando una possibilità della realizzazione dell'oggetto di pregio e della sua conservazione, non solo in vista del dono alla divinità, ma anche con l'intento di custodire in ambito domestico, privato o comunitario, un manufatto prezioso da riservare eventualmente per pratiche di scambio e dono ma questa ipotesi attualmente non si può dimostrare.
Le navicelle sono nate dall'osservazione delle imbarcazioni del tempo, lo attestano legature, alte mura, alberi, coffa. Negli esemplari più ricchi si aggiungono piccole sculture riproducenti animali. Le imbarcazioni attestano quindi un interesse per la navigazione che non poteva mancare in un popolo coinvolto nelle relazioni con l'esterno e stanziato in una terra insulare che, anche per posizione geografica, si pone al centro di un'area di intensi traffici transmarini.
Le rimarcate divergenze tipologico-formali che distinguono gli scafi delle navicelle bronzee di età nuragica possono costituire il punto di partenza per un tentativo di classificazione: da un lato abbiamo le navicelle a scafo ellittico-convesso tipo E ed EV, dall'altro le barchette con scafo del tipo V, che a loro volta mostrano qualche affinità con le navi del tipo C.
Le barchette ellittiche presentano spesso protomi prodiere di maggiori dimensioni, le colombelle, le sospensioni ad albero e a semialbero, il gavone prodiero. Gli scafi del tipo V si distinguono, oltre che per la foggia, per la presenza di costolature a rilievo sulle mura, protomi prodiere solitamente piccole, manici a ponte spesso con decorazioni e talora in forma di giogo bovino, peducci di sostegno, l'assenza di colombella sull'anello di sospensione e, talvolta, presenza dell'anellino sul bordo sinistro.
Lo scafo cuoriforme del tipo C, presenta anch’esso l'anellino sinistro e una piccola protome con lungo collo orizzontale. Le differenti forme degli scafi, ma anche il differente gusto decorativo per la foggia delle protomi, per l'alberatura e per la presenza di importanti dettagli nautici, deve farci ritenere che proprio gli scafi angolosi del tipo V, più di quelli ellittici, possono rappresentare vere e proprie riproduzioni di imbarcazioni d'uso locale, per brevi spostamenti, di piccolo cabotaggio.
Notiamo quindi delle tipologie parallele fra gli scafi, non un unico percorso evolutivo, da semplici scafi cuoriformi alle navicelle più elaborate, forse una tradizione di barche forestiere, dapprima soltanto osservate, in seguito forse anche imitate dalla cantieristica isolana. Cantieristica che doveva peraltro essere limitata dalla qualità e quantità dei materiali.
Mancavano in Sardegna alberi alti fino a 40 metri, come i grandi cedri del Libano, indispensabili per costruire lunghe e solide chiglie, remi, alberature. Si sarebbero potuti utilizzare i pini mediterranei, le querce o i cipressi, anche se il risultato non sarebbe stato paragonabile. Mancava il bitume, che consentiva di calafatare e rendere impermeabili gli scafi, il fasciame, i legni e le pelli; anche per questo materiale si potrebbe pensare ad una sostituzione con delle resine naturali, tuttavia il risultato non avrebbe avuto la stessa qualità. Mancavano soprattutto terre e isole vicine, a vista, con le quali intessere quella fitta rete di traffici e collegamenti marittimi, non limitati a contatti occasionali o stagionali, che avrebbe potuto trasformare gli antichi uomini di Sardegna da naviganti in navigatori.
E navigatori non si nasce: lo si diventa, attrezzando porti, cantieri di costruzione, rimessaggio e manutenzione, elaborando un'astronomia e una cartografia, lasciando tracce del proprio passaggio nelle testimonianze dei popoli vicini. Ciò che lascia perplessi, di fronte a tanta profusione di reperti, è la quasi assoluta mancanza, nei bronzi, dei mezzi di governo: vele, timoni, remi, scalmi, mostrati invece con tanto rilievo nelle raffigurazioni marinare di altre civiltà; e poi l'assenza, nei dipinti ma non nelle sculture, di strumenti di offesa e difesa: rostri, rinforzi, scudi, imprescindibili per la navigazione d'altura.
Armare una nave significava alla lettera dotarla degli armamenti necessari per affrontare coscientemente i pericoli, non sempre e solo naturali, del mare. Tutte le antiche civiltà mediterranee conoscevano la nave rostrata, che invece pare assente nei modelli sardi. Occorrerà forse allora riconsiderare, fra i due estremi che vogliono le antiche genti sarde ora un popolo di montanari legato alla terra, ora un popolo di temuti dominatori dei mari, il ricco ventaglio delle possibilità intermedie, tra le quali certamente trova luogo anche l'ipotesi di una cantieristica locale in grado di costruire imbarcazioni adatte per gli spostamenti in acque interne, per il piccolo cabotaggio, per il trasbordo e traghettamento delle merci o, forse, attrezzate per la difesa delle coste.
Senza peraltro escludere l'eventualità di avventurosi viaggi che abbiano visto gli uomini dei nuraghi allontanarsi su navi di tal fatta dal continente Sardegna, con quella frequenza e quella regolarità che sole possono stimolare lo sviluppo delle arti e delle tecniche marinaresche. Arti e tecniche che, nelle testimonianze archeologiche fino ad oggi esaminate, risultano solo in piccola misura attestate e significate. Resta aperta l’ipotesi che le navi più grandi fossero costruite in vari cantieri del Mediterraneo, con maestranze provenienti da tutto il Mediterraneo e, soprattutto, con gli alti fusti del Libano e i vari materiali occorrenti, opportunamente scambiati con altre merci. Un anticipo, dunque, di quella globalizzazione di merci e uomini alla quale assistiamo nei nostri giorni.
Personalmente ipotizzo che il committente volesse racchiudere nella navicella un simbolismo fortissimo. Desiderava dimostrare la sua conoscenza e il relativo dominio sui 4 elementi del cosmo: terra, aria, acqua e fuoco. La terra con la riproduzione di nuraghi e animali; l’aria con gli uccelli e la colombella; l’acqua con lo scafo e il fuoco con il processo di fusione del bronzo. Se ipotizziamo l’uso come lucerne si aggiunge un altro fattore: lo stoppino acceso si troverebbe a poppa, costituendo il quarto punto cardinale a formare nord (colombella), sud (scafo), ovest (protome), est (fiamma). Una vera e propria cosmografia racchiusa in un unico oggetto prezioso.
Nelle immagini: colombelle e protomi di navicelle conservati al museo di Cagliari