Brooklyn. Indignati senza rivoluzione

Creato il 04 ottobre 2011 da Nicola Mente

 C’era una volta un re. Si comincia sempre da qui, e si sa sempre come va a finire. Sin da bambini, educati al lieto fine del regno, o al felice ribaltamento del suo ordine costituito. Le due opzioni variano in conseguenza dell’accezione (negativa o positiva) del re in questione. Ed ecco che, con sorpresa, apprendiamo che il nostro re ha dei problemi. Problemi nati ai confini estremi dell’impero, e diffusisi fino alle grandi (e sempre più scarne) stanze della reggia.

L’indignazione, la parola del nuovo decennio, ha messo le radici, e si arrampica sulle mura di chi (tranne rare, seppur eclatanti eccezioni) non ha quasi mai pagato dazio. Si affaccia alla finestra di chi non ha mai toccato con le proprie mani tensioni proprie dei continenti più antichi. Inutile nascondere che la marcia su Wall Street di questi ultimi giorni possa suscitare in ciascuno di noi sentimenti di onnipotenza. Onnipotenza ed eccitazione alimentate da una condizione di precarietà e di incertezza, miste a quella consapevolezza di poter mostrare, con la propria residua forza, tutte le rimostranze verso coloro che direttamente tessono le fila, pur vivendo di rendita grazie ad un apogeo ormai sempre più lontano e sbiadito (si pensi all’America, dove la libertà è una statua). Gli indignati, crociati del nuovo millennio, son sbarcati a Manhattan partendo da Puerta del Sol, e raccogliendo consensi in Europa. Bel colpo, verrebbe da dire. Da questo si parte, dal concetto di rivoluzione. Che, però, tutto è fuorché una rivoluzione, neanche accennata.

I 700 manifestanti arrestati sul ponte di Brooklyn (chissà perché i numeri sono così importanti), come gli indignados che da tempo manifestano in Spagna, sono dipinti di un malessere nei confronti di un sistema che ha evidentemente sbagliato i calcoli. L’organizzazione mediatica di questo gigantesco movimento globale è pressoché perfetta, ed è famoso ormai lo slogan che imperversava nelle piazze spagnole: «Penso, quindi disturbo».

Il riferimento è certamente rivolto allo strumento con cui il sistema capitalista imbonisce la capacità critica del pensiero umano, troppo distratto dalla corsa ai consumi e dalla logica preponderante della misura di dignità regolata dal dio denaro, e dunque incapace di elaborare contestazione al sistema in cui vive. Ѐ proprio qui che sorge l’equivoco, e forse il limite di questa forma di protesta: appurato che il sistema è ingiusto, i paraocchi, ben fissi, impediscono agli stessi indignati di avere una giusta considerazione del problema.

Molti, moltissimi tra i manifestanti, non protestano per un sistema che non funziona e che non permette dignità (non solo economica) alla maggioranza degli abitanti del pianeta; molti, moltissimi, manifestano perché questo sistema impedisce loro di correre dietro al consumo, senza per questo rifiutarlo. In sostanza, l’ “indignato” protesta perché il sistema capitalista gli ha chiuso le porte in faccia, alimentando in se stesso una rimostranza esclusivamente soggettiva, che non può portare a nessuna palpabile rivoluzione. La reale necessità di cambiamento deve essere mossa da una presa di coscienza globale e asettica, non certo dall’impossibilità di raggiungere obiettivi comunque imposti dallo stesso capitalismo che si cerca (male) di combattere. Accade dunque che, in Spagna come a New York, non si protesta per rifiutare il sistema, si protesta perché il sistema ci ha rifiutato. Questa differenza, a primo acchito sottile ma a conti fatti estremamente determinante, svuota la portata potenziale della contestazione.

Qui, in parole povere, si lotta per rientrare nella reggia, dopo esser stati cacciati a calci nel sedere. Si dovrebbe lottare per costruire un’altra casa. Una dimora più confortevole, magari meno regale e senza gerarchie tra padroni e maggiordomi, senza arredamento sfarzoso, che garantisca spazio a tutti.  Uno spazio necessario soprattutto a chi è sempre stato emarginato dall’universo capitalista.

Gli indignati lanciano invettive contro politici e finanzieri, per chiedere una riammissione. Per far sì di recuperare la posizione che il sistema offre, e che i manifestanti vorrebbero riconquistare. Perché, in fondo, la maggioranza della popolazione viaggia su binari già edificati, su cui decide di proseguire, o al limite di fermarsi. Nessuna aspettativa di deragliare e di far deragliare il percorso che addormenta il pensiero. Un percorso già stabilito dalle gerarchie consumiste, un percorso tale da permettersi di non pensare, e dunque di non disturbare. E così capita che gli stessi che sbuffano per le manifestazioni dei precari, d’improvviso s’indignino quando viene toccata la loro sfera privata. Come gli attori che chiedono solidità contrattuale giocando all’autogestione (vedi Teatro Valle). Lavoratori che appoggiano intellettualmente un fermento scatenato dall’ebollizione della pentola, solo per salvare l’orto sotto casa. Una pentola che rischia di evaporare senza esplodere, o senza quantomeno cuocere alcunché di prelibato.

E così, il movimento adotta chiunque cerchi una visibilità, e una ricollocazione. Non certo una rivoluzione. La rivoluzione, se davvero questa è azione attuabile e non solo celebre chimera partorita dalla storia e dai libri, può nascere soltanto da una coscienza oggettiva di un mondo da abbattere, con la lucidità di capire la necessità di ripartire da zero, e non di recuperare il mille, perché si è scesi a ottocento. Insomma, un’indignazione esclusivamente soggettiva. Per andare nello specifico, in Spagna il movimento è nato dalla generazione post-franchista, che d’improvviso si è trovata esclusa dalle dinamiche socio-economiche della propria nazione, alle prese con un riflusso molto sensibile dopo l’illusorio miracolo zapateriano. I giovani spagnoli si sono così trovati da un “boom” economico esploso senza sapere come e perché, alla recessione più nera. Negli Stati Uniti, gli indignati han cominciato a proliferare dopo che il paese è stato investito da una poderosa crisi economica, crisi che ha portato lo staff di Obama a rivedere la strategia per le elezioni del 2012. Ѐ dunque evidente come il fermento culturale giovanile viaggi sempre di pari passo con la caduta di credibilità del mondo politico. Si pensi al famigerato 1968, o al più violento 1977. L’elemento che però emerge, in questa nuova forma di contestazione, è la ristrettezza del respiro, imbrigliato e non libero di trasformare le intenzioni in azioni concrete.

Il ponte di Brooklyn è riuscito così ad unire mille tipi di coscienze diverse, di esigenze diverse, di volontà diverse, al facile riparo sotto una stessa bandiera. Senza coesione di coscienza, però, l’azione non seguirà mai le pur (apparenti) nobili intenzioni. E l’idea della manipolazione della protesta si fa sempre più concreta, giorno dopo giorno. Nel più classico dei cliché orwelliani, si scatena il pensiero doppio, che investe anche il movimento (con la m minuscola). Si costruisce una realtà fittizia,  si cancella dalle memorie ciò che conviene, e si fa in modo che il bullone giri a vuoto, senza saldare nulla. Nessuno comprende il bisogno di avere esigenza globale di scontro. Una profonda consapevolezza di ingiustizia collettiva, una profonda consapevolezza di esser giunti al capolinea.

Il movimento di indignazione non dà voce a questa possibilità, si ferma al lamento, quasi come se il peggioramento di questi ultimi anni sia stato qualcosa di inaspettato in una macchina che funziona alla perfezione, e non un progressivo disfacimento di un apparato che non ingrana più da tempo. Pallottole a salve, dunque. Perché? Perché al centro del pensiero resta il prestigio sociale. La proprietà materiale. L’unico modello su cui costruire un progetto di vita. Una vita da schiavi inconsapevoli, schiavi senza catene. Perché quello che hai, sei. Ce l’ha insegnato il sistema consumista, quello di cui siamo intrisi. Dunque, l’indignato lotta per avere, e solo successivamente per essere. Così facendo, il re non é l’antagonista, ma soltanto il concessionario di illusioni negate e rincorse vita natural durante. E sinceramente, impostata in questi termini, questa favola metropolitana non sembra avere poi così tanti colpi di scena, tantomeno un lieto fine.

(Pubblicato su “Il Fondo – Magazine” del 4 ottobre 2011)



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